I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella
dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale
(«Il Programma Comunista», n. 13-14-15 del 1957)
Sommario:
·
Piano dell’esposizione
·
Rassegna degli avversari
I. Partito e Stato
di classe come forme essenziali della rivoluzione comunista
·
La grande questione del potere
·
Errore smascherato da un secolo
·
Proudhonismo risorgente e tenace!
·
Storia di sistemi impotenti
·
L’ubbia della «comune» locale
·
Mito del sindacato rivoluzionario
·
I soreliani e il marxismo
·
La prova della guerra mondiale
·
L’organizzazione di fabbrica
·
Storia della formula aziendale
·
Vano ritorno a formule svuotate
·
Insostituibilità del partito
·
La forma comunale
·
La forma sindacale
·
Vigore delle forme intersindacali
·
La funzione economica
·
Polemica che è sempre quella
·
Parole non più dimenticabili
·
Alla scala della società
·
L’esperienza russa e Lenin
·
Sindacati e capitalismo di Stato
·
La forma aziendale
·
Marxismo ed economia dei consigli
Presentazione
del 1969
Il testo che qui riproduciamo è
il resoconto integrale, già apparso sul nostro quindicinale «Il Programma
Comunista», n. 13-14-15 del 1957, del rapporto omonimo tenuto ad una nostra
riunione generale in Francia. Nella lunga opera di ripresentazione della
dottrina marxista integrale, che il Partito svolge ormai da decenni contro le
ricorrenti ondate revisionistiche, esso occupa un posto tanto più importante,
in quanto le deviazioni e gli sviamenti qui denunziati alla luce del marxismo
in gruppetti italiani e francesi di falsa sinistra hanno ripreso nuovo vigore e
sono anzi divenuti il pane quotidiano sia dei cosiddetti partiti «comunisti» di
affiliazione russa o cinese o altra, sia delle innumerevoli conventicole di «contestatori».
È un segno della vitalità e insieme della invarianza della dottrina
marxista, di contro alle pretese di scoperta degli «innovatori», che la nostra
feroce polemica di oggi possa riprendere tali e quali le classiche strigliate
di Marx e di Engels a Proudhon nel 1847 e al nascente partito tedesco impeciato
di lassallismo nel 1875, oltre che, naturalmente, nel «Manifesto».
Si tratta di malattie
croniche (e altrettanto invarianti) del movimento operaio, destinate a
riaffiorare nella stessa misura in cui l’influenza ideologica, se non il peso
sociale, della piccola borghesia continua ad infiltrarsi e a serpeggiare nelle
file del proletariato, e a sopravvivere in esse per una specie di inerzia
storica – nel che è, fra parentesi, una delle ragioni della necessità
dell’esercizio dittatoriale del potere conquistato ad opera del partito
comunista.
Due sono i bersagli
contro i quali è diretto, in questo ambito, lo strale della nostra critica. Il
primo è l’antica pretesa, svolta fino alle estreme conseguenze dagli anarchici,
di privare la classe e la sua lotta di emancipazione delle armi senza le quali
la prima non è neanche classe in senso proprio e la seconda è impossibile, cioè
il Partito e lo Stato della dittatura e del terrore rosso; errore (ma
errore fatale) in cui precipitano anche coloro che, pur rivendicando la lotta
di classe, la rivoluzione violenta e la dittatura, sacrificano il partito,
nella sua funzione primaria di guida della classe ed anzi di incarnazione
della classe stessa nel suo cammino storico, al mito di una gestione diretta
del potere attraverso organi sedicentemente rappresentativi della volontà
autentica, non burocraticamente deformata, dei lavoratori: mito oggi
diffuso un po’ in tutto il mondo con l’aiuto di filosofi, professori e... studenti.
Il secondo bersaglio,
strettamente legato al primo sebbene apparentemente isolabile da esso, è la
visione distorta di un’economia socialista che, lungi dall’essere un’organizzazione
della produzione «alla scala della società» e quindi, tendenzialmente, della
specie, si svolgerebbe in isole locali chiuse e gelosamente «autonome», nel che
riaffiora l’ideologia individualista e democratica propria dell’economia
borghese e del suo necessario palcoscenico, il mercato. Questa visione non è
soltanto tipica dell’anarchismo classico, del rivoluzionar-sindacalismo e della
sua variante ordinovista, nonché di tutti i gruppi o gruppetti «innovatori» e «contestatori»
che iscrivono sulla loro bandiera la rivendicazione di diritti e «poteri»
periferici – nella fabbrica, nel quartiere, dovunque (e, a ben guardare, prima
di tutto nel sacrosanto Io del borghese grande, medio e piccolo) – ma
anche dello stalinismo nelle sue molteplici proliferazioni, come è del resto
naturale per chi ha scoperto che nell’economia socialista («edificabile in un
paese solo»!) continua a vigere la legge del valore – con il suo codazzo di
categorie economico-sociali: merce, lavoro salariato, profitto ecc. – e non
alludiamo soltanto alla ideologia iugoslava dell’autogestione, ma alle riforme
degli stessi Krusciov e Kossighin, dei Kadar e Ceausescu, o della vagheggiata «primavera
praghese» tutte ispirate all’»ideale» dell’autonomia crescente delle
unità produttive, e in primo luogo dell’azienda.
Gli anelli ferrei della
dottrina marxista sono, qui, tutti spezzati, e, partendo da orizzonti spesso
opposti (lo stalinismo e l’...antistalinismo), tutti gli «innovatori» piombano
nel comune pantano del democratismo, del proudhonismo e in definitiva dell’individualismo,
rispolverano i logori miti di liberté, égalité e fraternité, convinti ogni
volta di aver scoperto continenti inesplorati e di aver «creativamente»
contribuito a dare «un volto umano» al socialismo e al comunismo, e beatamente
ignari di essere semplicemente tornati in braccio a Santa Madre Chiesa, – la
chiesa, ben s’intende, del Capitale.
Non abbiamo quindi nulla
da aggiungere a un testo di tredici anni fa, così come questo non aveva da
aggiungere nulla ai classici testi di un secolo prima.
* * *
Presentazione
1976
Il testo che segue
costituisce il resoconto scritto di una riunione generale del partito tenuta
nel 1957. L’attuale pubblicazione rientra in un programma di lavoro secondo un
piano che prevede la riproposizione delle posizioni della Sinistra Comunista
marxista.
Poiché i testi della
Sinistra sono di moda, soprattutto se attribuiti ad un capo carismatico, con
tanto di nome e cognome, per potere fare oggetto di lucro e speculazione
commerciale, noi, consapevoli che le posizioni ivi contenute hanno valore
storico e di battaglia rivoluzionaria alla sola condizione che siano
considerate strumenti di partito, come testi di partito, appunto, li
pubblichiamo e al più basso prezzo possibile le offriamo perché i proletari
possano accedervi meno difficilmente.
Ovviamente non
attribuiamo ad essi alcuna paternità personale, disciplinati ferreamente ad un
preciso e categorico ordine di partito che vieta la pubblicazione di testi
sotto la generalità di una persona, che consideriamo deviazione tipica scimmiottante
l’imbecillità vanesia dell’intellettualità e della speculazione borghese, anche
ed a maggior ragione se l’operazione viene mascherata dietro un’anonima casa
editrice non emanante dal partito.
Tanto varrebbe, allora,
enunciare sulla nostra stampa periodica il nome del fesso estensore di turno o
pubblicare altri testi a firma diversa da quella del genio conclamato,
stabilito ormai che molti testi della Sinistra non sono usciti da un’unica «penna».
Vorremmo finalmente
scansare la jattura di un altro bilancio negativo di un nome, come lo fu
purtroppo quello di Lenin, con il quale si coprono tutt’ora le più orrende
nefandezze controrivoluzionarie.
I «falsari» che non hanno
osato tanto quando era in vita, pur provandoci, hanno atteso la sua morte per
trasformarlo in «icona inoffensiva» e farsi facile pubblicità. Chi dovesse
seguire il partito attratto dal genio del grande dirigente, è indegno di
militare nelle file della rivoluzione comunista proletaria e riproduce il vile
codismo del piccolo borghese, sempre pronto a tradire nell’ora della avversa
fortuna.
* * *
I «Fondamenti»
sono un testo della fase storica negativa ancora persistente che esprime la
dura e faticosa opera di sistemazione dottrinaria, che per un partito
rivoluzionario non cesserà mai, nemmeno nel fuoco stesso dell’insurrezione
armata, come Lenin ha insegnato e la Sinistra confermato. Va letto con estrema
pazienza ed umiltà – attributi questi non certo propri del piccolo borghese,
impaziente e presuntuoso – perché costituisce una potente sintesi di memorabili
e cruciali lotte proletarie, svolta in chiave programmatica e teorica. Il
semplice proletario basterà che intenda quello che ci permettiamo di chiamare
il fondamento dei «Fondamenti» e che si riassume in questo passo:
«La piccola borghesia diventa reazionaria non quanto, ma ben più dell’alta
borghesia. Ogni passo per legarsi ad essa è opportunismo, distruzione della
forza rivoluzionaria, solidarietà con la conservazione capitalistica. Ciò vale
oggi per tutto il contemporaneo mondo bianco». E si compie un passo verso il
nemico, aggiungiamo noi, ogni volta che si travisano e mistificano le posizioni
del programma e della dottrina.
Il testo, ruotando su
questo pilastro, si prodiga a dimostrare che i nemici peggiori della rivoluzione
tra quelli classificati in «negatori» (anticomunisti dichiarati), «falsificatori»
(socialdemocratici, anarchici, ecc.) e «aggiornatori» (sinistrume odierno), gli
ultimi due gruppi sono i peggiori ed il terzo gruppo è peggiore di tutti. Con
una anticipazione di venti anni, che il testo opportunamente fa risalire ad
oltre un secolo, ai ceffoni di Marx a Proudhon, Bakunin, Stirner, ecc..,
vengono fustigate le posizioni degli «aggiornatori» odierni, ai quali il
partito riserva la classica «condanna del silenzio» indegni persino di essere
nominati, ma, tuttavia, meritevoli i loro atteggiamenti di essere trattati col
ferro e col fuoco della critica demolitrice del marxismo rivoluzionario. Dal
1957 ad oggi, l’appestamento degli «aggiornatori», dosato nelle infinite
ricette dell’alchimia piccolo-borghese, ha fatto notevoli passi invadendo anche
alcuni settori proletari e premendo persino sui fianchi dei comunisti, non
tutti ben saldi per resistere alla micidiale infezione. La caratteristica
comune a tutti gli «aggiornatori» è quella di aver riscoperto un «certo»
carattere «rivoluzionario» della piccola borghesia, individuabile, a seconda
del tipo di truffatori, ora nel «popolo lavoratore», ora negli «studenti
rivoluzionari», ora nell’»autonomia operaia», e via dicendo; e di conseguenza
prospettando sciagurati «fronti» e fantomatici «campi rivoluzionari», nei quali
arbitrariamente vengono stipati alla rinfusa anarchici, «sinistri»,
extra-parlamentari, comunisti internazionalisti, e chi ne ha, più ne metta.
Undici anni prima, nel
1946, enunciavamo come uno dei «cardini principali», inserito nel «Tracciato d’impostazione»:
«Il movimento rivoluzionario comunista di quest’epoca convulsa dev’essere
caratterizzato non solo dalla demolizione teorica di ogni conformismo e di ogni
riformismo del mondo contemporaneo, ma anche dalla posizione pratica e come
suol dirsi tattica che non vi è più strada da fare insieme con qualunque
movimento, conformista o riformista, nemmeno in settori e tempi limitati». Di
conseguenza, per l’incessante opera di distruzione del collegamento tra
proletariato e borghesia, ripetuto tramite l’intermediazione opportunistica,
dobbiamo ribadire, mille volte ancora ripetere, «gridare alto», e «molto tempo
prima», la tesi centrale del comunismo rivoluzionario, dimenticata o peggio
ritenuta mera espressione estetica, da «falsificatori» e «aggiornatori», che è «l’organo
Partito che maneggia l’arma Stato; organo senza il quale la classe non ha vita
né forza di battaglia»; tesi che di accompagna dialetticamente all’altra e
cioè, se «l’alternativa tra crisi mondiale e guerra o rivoluzione comunista
internazionale non è che questione di forza rivoluzionaria per la classe», «La
questione di forza è, nel suo primo aspetto, questione di restaurazione della
teoria rivoluzionaria» e della difesa, «poi del partito comunista senza
frontiere». «Primo aspetto», gaglioffi, non prima «tappa»! Vale a dire che,
ripetendo Lenin, «senza teoria rivoluzionaria non v’è azione rivoluzionaria», e
la teoria non è posseduta una volta per tutte, digerita, consustanziata nel
partito militante una volta per tutte. Le due tesi anti piccolo-borghesi,
enunciate, sono quanto mai attuali, oggi che si ciancia da più parti di «tappe»,
«fasi», «livelli», della dottrina, dell’azione, dell’organizzazione, della
tattica, temporalmente consecutivi, per cui sarebbe terminata il giorno X, con
la scomparsa del grande ideologo, la «tappa» dottrinaria, con la morte (fisica
o sociale?) del potente capo, la tappa dell’azione, ecc... Tutto il colossale
lavoro della Sinistra da mezzo secolo sta a dimostrare la falsità della «costruzione
del partito» per «tappe», come ha dimostrato abbondantemente la falsità della «costruzione»
del «socialismo per tappe». Tesi, questa, che autorizzerebbe a scindere tra i
diversi «aspetti» della lotta rivoluzionaria, ovvero, «fermi restando i
principi» (suprema concessione degli «aggiornatori»!), a svolazzare in qua e in
là, che in definita significa rinnegare nella pratica quegli stessi «principi»
osannati a chiacchiere.
A più forte
ragione, oggi 1976, nel pieno regno della compra-vendita di principi e del
tralignamento dell’eroica e antica tradizione di classe, sono validissime e
attualissime le tesi e le posizioni sostenute nei «Fondamenti» e in
tutto il lavoro della Sinistra che non ha inteso né intende «aggiornare», «arricchire»,
«adattarsi alla realtà» triviale dello smidollato oggi.
* * *
Piano dell’esposizione
Introduciamo prima di
tutto la nostra esposizione facendo osservare come non ci si possa attendere
una trattazione sistematica che abbracci tutti gli aspetti della concezione e
del programma comunista, sotto il riflesso economico, storico e politico e
sotto quello che potrebbe dirsi il tessuto connettivo degli altri, rispondente
all’originalità del nostro metodo, al modo del tutto esclusivo con cui il
marxismo – con risposte complete e definitive date fin dalla primissima sua
apparizione, che si pone nella prima metà del secolo scorso – scioglie a nostro
credere per sempre i nodi del legame fra teoria ed azione, economia e
ideologia, causalità determinante e dinamica della società umana: quello che
per brevità diciamo talvolta aspetto filosofico del marxismo, o materialismo
dialettico.
Saremmo di più esposti
all’abituale censura di astrattismo ove volessimo, sistemando tali concetti,
chiarire la nostra originale veduta della funzione dell’individuo nella
società, e del legame dell’uno e dell’altra con l’ente Stato, e del significato
nel regolare questa dottrina dell’ente classe. Ci esporremmo quindi al rischio
di essere fraintesi, lasciando dimenticare un dato basilare della nostra
soluzione, ossia quello che le formule che sciolgono quelle domande non sono
permanenti nel tempo ma variano col succedersi di grandi periodi della storia,
che sono per noi quelli delle diverse forme sociali e modi di produzione.
La nostra riproposizione
sarà quindi, pur rivendicando la costanza delle risposte marxiste al di sopra
degli episodi svolti delle situazioni storiche, più legata alla fase
disgraziata che oggi attraversa in tutto il mondo, da decenni e certo per
decenni, il movimento rivoluzionario contro il capitale; e metteremo nella
giusta posizione le pietre angolari della nostra scienza, raddrizzando quelle
che più insistentemente i nemici tentano di abbattere, e agendo nella direzione
opposta alla loro spinta deformante.
Per far ciò, porremo l’occhio
su tre principali gruppi dei critici della posizione dottrinale che è la sola
rivoluzionaria, e nel fare ciò ci preoccuperà maggiormente quella critica che
più tenacemente pretende di far leva sugli stessi principi e movimenti a cui
noi ci richiamiamo.
Ricordiamo ai lettori che
un simile tema fu svolto nella riunione di Milano del 1952 [«Invarianza storica
del marxismo nel corso rivoluzionario», in «Programma Comunista», nn. 1-5 del
1953, riprodotto nei nn. 5-6 del 1969], che in una prima parte rivendicò la
storica invarianza del marxismo sostenendo che esso non è una dottrina
in continua formazione, ma si completò nel tempo storico a ciò adatto, ossia
all’apparire del moderno proletariato, ed è pietra di paragone per la nostra
visione storica la riprova che tale classe percorrerà tutto l’arco storico dall’apparizione
alla caduta del regime del capitale usando intatte le stesse armi
teoriche. La seconda parte trattò della «falsa risorsa dell’attivismo»
svolgendo la critica, cui anche qui ci dedicheremo, dei ritorni delle illusioni
«volontariste», forma degenerante pericolosissima del marxismo sempre sfruttata
nelle ondate delle epidemie opportuniste.
Rassegna degli avversari
In quella prima parte
dividemmo i nemici della nostra posizione tra: negatori, falsificatori,
aggiornatori.
I primi sono oggi
rappresentati dai difensori aperti e dagli apologeti del capitalismo come forma
definitiva della «civiltà» umana. Noi non dedichiamo più ad essi troppa
attenzione; la nostra considerazione è che sono già stati messi knock-out
dai colpi di Carlo Marx, e ce ne liberiamo ripetendo quei colpi, a suo tempo
appresi, contro gli altri due gruppi. (Poniamo qui in parentesi, una volta per
sempre, che il compito di questa nostra dichiarata «riproposizione» non aspira
tanto ad essere definitiva vittoria in un agone polemico, ma tende, specie fino
a che siamo nei limiti di un sunto, a chiaramente autodefinirci e a fornire i
nostri connotati critici, con il carico di provare che sono tali da non essere
mutati in ben più di cento anni).
I negatori di Marx
del primo gruppo vedono confermata la loro disfatta, per ora solo dottrinale (e
domani sociale), dal fatto che ogni giorno più passano tra quelli che «rubano»
le verità che Marx scoprì, e convinti di non poterle abbattere quando siano
fermamente enunciate (come invece noi rivoluzionari procuriamo senza tema di
fare con le loro tesi classiche) si presentano nella forma della seconda
schiera, dei falsificatori, e (perché no?) della terza.
I falsificatori sono
quelli che vengono storicamente indicati come «opportunisti» revisionisti,
riformisti, quelli che tolsero dal complesso delle teorie di Marx, assumendo
che fosse possibile senza tutto annientare, l’attesa della catastrofe
rivoluzionaria e l’uso della violenza armata. Vi sono però, e lo si richiamerà
subito, schiere di falsificatori del tutto paralleli ai primi (e del pari nella
superstizione dell’attivismo) anche tra quelli che mostrano accettare la
violenza ribelle: ma dove gli uni e gli altri rinculano è davanti al contenuto
esclusivo e discriminante della teoria di Marx: la forza armata nel pugno non
più del solo individuo o gruppo oppresso, ma della classe vittoriosa e
liberata, la dittatura di classe, bestia nera di socialdemocratici e di
anarchici. Possiamo avere avuto intorno al 1917 l’illusione che anche questo
secondo lurido gruppo fosse andato al tappeto sotto i colpi di Lenin, ma,
mentre consideriamo definitiva quella vittoria in dottrina fummo tra i primi ad
avvertire la presenza delle condizioni da cui quella genìa infame sarebbe
risorta, ed oggi la definiamo nello stalinismo, e nel post-stalinismo russo in
circolazione dal XX Congresso in poi.
Infine nel terzo settore
degli aggiornatori noi collochiamo quei gruppi che, pur considerando lo
stalinismo di cui sopra come una nuova forma del classico opportunismo battuto
da Lenin, attribuiscono questo pauroso rovescio del movimento rivoluzionario
operaio a forme difettose ed insufficienti contenute nella prima costruzione di
Marx, e si assumono di rettificarla pretendendo di poterlo fare sui dati della
evoluzione storica successiva alla formazione della teoria; evoluzione che, a
loro dire, l’ha contraddetta.
Esistono in Italia, in
Francia ed ovunque molti di questi gruppi e gruppetti nei quali si disperdono
con esito disastroso le prime reazioni proletarie contro i terribili disinganni
dovuti alle deformazioni e alle decomposizioni prodotte dallo stalinismo, dalla
tabe opportunista che ha ucciso
Tutti questi gruppi
cadono, in blocco nell’altra malattia dell’attivismo, e la loro enorme distanza
critica dal marxismo non fa loro intendere che è lo stesso errore dei Bernstein
tedeschi che volevano fabbricare il socialismo entro la democrazia parlamentare
contrapponendo la quotidiana prassi alla (per loro) fredda teoria, e dei figli
di Stalin che hanno fatto a pezzi la posizione e di Marx e di Lenin e di
Trotzky sulla internazionalità della trasformazione economica socialista, in
una sconcia esibizione di pugni muscolati con cui l’avrebbero, esasperando la
loro volontà di dominio, già fabbricata!
Stalin è il padre teorico
del metodo dell’arricchimento e dell’aggiornamento del marxismo, che ogni volta
che si presenta equivale alla distruzione della visione della forza
rivoluzionaria proletaria mondiale.
Quindi la nostra
posizione è contro i tre gruppi allo stesso tempo, ma la rimessa in ordine ed a
punto più essenziale la dovremo fare nei riguardi delle speciose deformazioni e
presuntuose neo-costruzioni del terzo gruppo, che per essere contemporanee sono
più note, e che non è facile per i lavoratori di oggi, dopo la devastazione
stalinista, ricondurre a vecchie storiche insidie, contro le quali noi
proponiamo una sola attitudine: il ritorno integrale alle posizioni del
comunismo del «Manifesto» del 1848, che contengono in potenza tutta la nostra
critica sociale e storica, dimostrando che tutta la susseguente vicenda, con le
sanguinose lotte e sconfitte del proletariato lungo un secolo, ribadisce la
solidità di quanto si vorrebbe follemente abbandonare.
* * *
I . Partito e Stato di classe come forme essenziali della rivoluzione comunista
La grande questione del potere
Portando, al solo fine di
alleggerire la deduzione teoretica, la nostra attenzione sulla numerosa schiera
dei critici delle degenerazioni moscovite, la quale si è andata allargando
malgrado le contromisure preventive del XX Congresso dopo gli avvenimenti di
Ungheria, Polonia, della Germania orientale, agli stessi margini dei partiti
stalinisti ufficiali in occidente con sfilamenti, a nostro parere, di materiale
più che equivoco e piccolo-borghese come può essere quello dei Sartre o dei
Picasso, dobbiamo osservare che, non senza successo, la condanna ha questo
suono: abuso della dittatura, abuso della forma del partito politico soggetto a
disciplina centrale, abuso del potere di Stato nella forma dittatoriale. Tutta
questa genterella cerca il rimedio in questa direzione: più libertà, più
democrazia, riporto del socialismo nella atmosfera ideologica e politica della
legalità liberale ed elettorale, rinunzia all’uso della forza di Stato, in
generale, nei rapporti tra le diverse proposte, e dunque opinioni, politiche.
Al solito noi diamo il primo posto come obiettivo dei nostri colpi non a chi
tanto dice come aperto difensore del modo borghese di produzione tenuto a
battesimo da quel sistema ideologico giuridico e politico, ma a chi vuole
innestare questo cianciare senza senso al troncone marxista.
E poniamo giù subito la
nostra opposta assunzione. Il movimento rivoluzionario scevro da servile
ammirazione del mondo libero americano, da soggezione alla corruzione
moscovita, da vulnerabilità alla lue tremenda dell’opportunismo, risorgerà solo
in quanto ritroverà la radicale piattaforma originaria marxista, e sulla decisa
formula che il socialismo, per suo contenuto, supera, nega e disonora come
concetti adatti alla difesa e conservazione del capitalismo la libertà, la
democrazia, il parlamentarismo elettivo, la suprema menzogna e risorsa
controrivoluzionaria di rivendicare uno Stato inerte e neutrale davanti agli
interessi delle classi ed alle proposte dei partiti, e quindi alla balorda libertà
delle opinioni – essendo un tale Stato e una tale libertà mostruose
invenzioni che la storia non ha mai conosciute né conoscerà.
Non solo è pacifico che
tanto ha stabilito e dichiarato il marxismo fin dai primi anni, ma va aggiunto
che il concetto dell’uso del potere fisico, contro le minoranze – e anche le
maggioranze – avverse, presume l’intervento di due forme essenziali contenute
nello «schema» storico marxista: Partito e Stato.
Vi è uno «schema storico
marxista» in quanto, in altre parole, la dottrina marxista si basa sulla
possibilità di tracciare uno schema alla storia. Se non si arriva a
trovare qual’è lo schema, o se quello trovato fallisce, il marxismo sarà caduto
e avranno ragione i negatori del primo tipo; forse non basterà nemmeno
questo per far capitolare i marxisti falsificati e «arrangiati»!
Chi si oppone alla nostra
tesi che nello schema marxista Partito e Stato sono elementi non accessori,
ma principali, e volesse affermare che l’elemento principale è la classe,
mentre il Partito e lo Stato sono accessori della storia e della lotta
di essa, che egli ha stabilito di «cambiare» come le gomme o i fanali di un’automobile,
sarebbe smentito, per ora e per direttissima, dallo stesso Marx, nella lettera
a Weydemeyer citata classicamente da Lenin in «Stato e Rivoluzione», di cui noi
rivendichiamo integralmente la costruzione storica. Che ci siano le classi,
dice Marx, non io l’ho scoperto, ma molti scrittori e storici borghesi (al
1852). Nemmeno la lotta delle classi l’ho scoperta io, ma molti altri,
che non sono per questo né comunisti né rivoluzionari. Il contenuto della mia
dottrina sta nel concetto storico della «dittatura» del proletariato, stadio
necessario nel passaggio dal capitalismo al socialismo. Così dice Marx, una
delle rare volte che parla di sé.
La classe operaia
statisticamente definita dunque non ci interessa gran che. Poco più la classe
operaia che a gruppi si muove per dipanare sue divergenze di interessi con le
altre classi (sono sempre più di due). A noi interessa la classe che ha preso
la dittatura, ossia ha vinto il potere, ha distrutto lo Stato borghese, ha
eretto il suo, come Lenin da maestro enuclea svergognando i «dimenticatori» del
marxismo della II Internazionale. Come, su una classe, si poggia un
potere di Stato dittatoriale totalitario, una macchina di Stato opposta alla
vecchia come l’esercito vincitore nelle posizioni dello sconfitto? Quale l’organo?
I filistei risposero subito che per noi era l’uomo, per la Russia era
Lenin, di cui si osa fare un paio con lo sciagurato Stalin, bruciato oggi e,
dicono, assassinato ieri dai suoi cagnotti. La nostra risposta era ed è più che
mai altra.
L’organo della dittatura
e del maneggio dell’arma-Stato è il Partito politico della
classe, il partito che, nella sua dottrina e nella lunga catena storica della
sua azione, possiede in potenza il compito di trasformazione della società, che
è proprio della classe. Il Partito. Noi non ci limitiamo a dire che la lotta e
il compito storico della classe non si potranno attuare se non sono affidati a
queste due forme: Stato dittatoriale (ossia che espelle da sé, fin che
esistono, le altre classi ormai vinte e soggiogate) e Partito politico. Noi
diciamo che nel nostro linguaggio dialettico e rivoluzionario si comincia a
parlare di classe, a stabilire un legame dinamico tra una classe oggi compressa
nella società e una forma sociale futura e rivoluzionata, a prendere in
considerazione la lotta tra la classe che detiene lo Stato e quella che deve
rovesciarlo e sostituirlo col suo, solo quando la classe non è una fredda
constatazione statistica, che resta alla pedestre altezza del pensiero
borghese, ma si manifesta nel suo Partito, organo senza il quale non ha vita né
forza di battaglia.
Non solo dunque non si
può staccare il partito dalla classe come un accessorio da un principale;
ma i nuovi deformatori del marxismo, proponendoci una classe proletaria priva
di partito, o con un partito sterilizzato e impotente, o cercando surrogati al
partito, hanno fatto scomparire la classe, uccisa la possibilità che la
classe lotti per il socialismo, e peranco per un suo tozzo di pane.
Errore smascherato da un secolo
A simili enormità sono
stati spinti i moderni arricchitori da uno smarrimento critico che li ha
indotti senza saperlo a fare proprie le insinuazioni borghesi e
piccolo-borghesi che sorsero quando la rivoluzione di Russia procedeva ancora
su quella linea, che anche secondo essi fu gloriosa, e in cui Classe, Stato,
Partito ed uomini del partito stavano sullo stesso piano rivoluzionario,
appunto in quanto su quelle posizioni essenziali non vi erano esitazioni di
sorta.
Essi non si rendono conto
che annacquando il partito e la sua funzione di primo organo della rivoluzione
essi declassano il proletariato e lo portano impotente sotto il giogo
della classe dominatrice, che non potrà abbattere e nemmeno mitigare anche
sotto angoli visuali ristretti. Essi credono di avere davvero migliorato
il marxismo per avere imparato dalla storia un banale: chi troppo la tira la
spezza! degno dell’ultimo cerottaio, e non si accorgono che non si tratta di
una correzione ma di un livragamento; meglio, di un complesso d’inferiorità da
incomprensione impotente.
Due sono i trapassi
rivoluzionari del capitolo Proletari e Comunisti. Il primo, già indicato nel
precedente capitolo Borghesi e Proletari, è la organizzazione del
proletariato in partito politico. Questa affermazione segue l’altra
notissima: Ogni lotta di classe è lotta politica. La sua espressione è anzi
ancora più netta e collima con la nostra tesi: il proletariato è storicamente
una classe quando arriva a dar vita alla lotta politica e di partito. Il testo
dice infatti: Questa organizzazione dei proletari in classe, quindi in
partito politico.
Il secondo dei trapassi
rivoluzionari è l’organizzazione del proletariato in classe dominante:
qui viene sollevata la questione del potere e dello Stato. «Abbiamo già visto
sopra che il primo passo nella rivoluzione operaia è l’elevarsi del
proletariato a classe dominante».
Segue di poco più oltre
la secca definizione dello Stato di classe: «Il proletariato stesso organizzato
come classe dominante».
Né abbiamo qui bisogno di
anticipare come un’altra delle tesi essenziali rimesse in piedi da Lenin, la
sparizione dello Stato in tempo ulteriore, è contenuta anch’essa in quel primo
testo famoso. La definizione generale: «Il potere politico è la forza
organizzata di una classe per l’oppressione di un’altra», sottolinea le
classiche affermazioni: il potere pubblico perderà il suo carattere politico,
spariranno le classi ed ogni dominio di classe, anche quello proletario.
Dunque, al centro della
visione marxista vi è il Partito e lo Stato. Si tratta di prendere o lasciare.
Cercare la classe fuori del suo Partito e del suo Stato è opera vana, privarla
di essi significa volgere le terga al comunismo e alla rivoluzione.
Questo tentativo demente,
che gli «aggiornatori» considerano una scoperta originale fatta dopo
Proudhon rifugge dalla
conclusione della battaglia politica in quanto la sua posizione della
trasformazione sociale è monca, non contiene il superamento integrale dei
rapporti capitalisti di produzione, è concorrentista, è localmente cooperativa,
resta bloccata alla visione borghese della azienda o del mercato. Egli gridò
che la proprietà era un furto, ma il suo sistema, restando un sistema
mercantile, resta un sistema proprietario e borghese. La sua miopìa sulla
rivoluzione economica è la stessa dei moderni «aziendisti», che ripetono in
forma meno vigorosa la vecchia utopia di Owen che voleva liberare gli operai
dando loro la gestione della fabbrica in piena società borghese. Si chiamino
questi signori ordinovisti all’italiana o barbaristi alla
francese, uno stampo proudhoniano li accompagna nella remota origine, e come a
Stalin si potrebbe loro lanciare la invettiva: O miseria degli arricchitori!
Proudhonismo risorgente e tenace!
Nel sistema di Proudhon è
esaltato al massimo lo scambio individuale, il mercato, il libero
arbitrio del compratore e del venditore, e si afferma che basterà adeguare il
valore di scambio di ogni merce a quello del lavoro che essa contiene, per
avere eliminato tutta la iniquità sociale. Marx mostra – e sarà mostrato contro
Bakunin, contro Lassalle, contro Dühring, contro Sorel, contro i pigmei più
recenti cui abbiamo accennato – che sotto tutto questo non vi è che l’apologia
e la conservazione dell’economia borghese, come altro non vi è nell’affermazione
staliniana che in una società socialista, quale egli pretende sia la russa,
continua a vigere la legge dello scambio di valori equivalenti.
Fin da quel testo in
poche righe Marx segna l’abisso tra queste ripisciatine del sistema capitalista
e la visione colossale della società comunista di domani. Ciò è in risposta
alla costruzione di Proudhon di una società in cui il gioco illimitato della concorrenza
e l’equilibrio dell’offerta e della domanda facciano il miracolo di assicurare
a tutti le cose più utili e di prima necessità al «minimo costo», eterno sogno
piccolo-borghese dei servi sciocchi del capitale. Marx rivoluziona facilmente
questo sofisma e lo deride col paragonarlo alla pretesa, dato che col tempo
bello tutti passeggiano, di far passeggiare la gente proudhoniana per ottenere
che faccia bel tempo.
«In una società futura,
in cui l’antagonismo di classe fosse cessato, in cui non esistessero più
classi, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo di tempo di
produzione ma il tempo di produzione sociale che si destinerebbe ai
diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale».
È una delle tante gemme
che si traggono dagli scritti classici della nostra grande scuola, e che
provano l’insulsaggine del luogo comune: Marx amava descrivere nelle sue leggi
il capitalismo, ma non ha mai descritta la società socialista: sarebbe
ricaduto... nell’utopismo. Comune a Stalin e ad antistalinisti da dozzina.
L’utopismo è invece da
contestare ai Proudhon-Stalin che vogliono emancipare il proletariato e
conservare lo scambio mercantile. Ultima edizione del tentativo è
Lo scambio individuale e
libero su cui poggia la metafisica di Proudhon si sviluppa nello scambio
aziendale, della officina, della intrapresa gestita dagli operai, nella
rancida banalità che pone il contenuto del socialismo nella conquista della
azienda da parte dei suoi operai locali.
Nella sua crociata in
difesa della concorrenza il vecchio Proudhon precorre la modernissima ubbìa
dell’emulazione produttiva. Il progresso, si soleva dire dai benpensanti di
quel tempo, che non sapevano di essere meno codini dei moderni Krusciov, nasce
dalla sana «emulazione». Ma Proudhon identifica la emulazione produttiva, «industriale»,
con la concorrenza stessa. Tendono ad emularsi quanti concorrono ad un medesimo
scopo, quale può essere «la donna per l’amante». Marx osserva con sarcasmo: Se
l’oggetto immediato dell’amante è la donna, l’oggetto immediato dell’emulazione
industriale dovrebbe essere il prodotto e non il profitto. Ma
siccome la corsa è al profitto, nel mondo borghese (e la cosa vale dopo oltre
cento anni) la pretesa emulazione produttiva si risolve in una concorrenza
commerciale. Che è quella stessa cui anelano, nei sorrisi seducenti che si
scambiano in questa gonfia estate, americani e moscoviti.
Oltre che nella monca
visione della società rivoluzionaria Proudhon appare il precursore dei
modernissimi neo-aziendisti anche nella più circospetta delle loro posizioni:
la messa in mora del Partito e dello Stato perché creano dei dirigenti,
dei gerarchi, dei consegnatari del potere, e la debolezza della umana natura
rende inevitabile la loro trasformazione in un gruppo di privilegiati,
in una nuova classe (o casta?) dominante, alle spalle del proletariato.
Queste ubbìe sulla «natura
umana» Marx le aveva già allora ricacciate in gola al ponzatore di sistemi
Proudhon. La frase è tanto breve quanto scultorea: Il signor Proudhon ignora
che la storia tutta intera non è che una continua trasformazione della natura
umana.
Sotto questa massiccia
pietra sepolcrale possono dormire cento schiere di idioti anti-marxisti
passati, presenti e futuri.
A corroborare la nostra
dichiarazione che nessuna riserva o limitazione anche secondaria poniamo al «pieno
impiego» delle armi Partito e Stato nella rivoluzione operaia,
aggiungeremo, per liquidare questi scrupoli ipocriti, che alle inevitabili
manifestazioni individuali della patologia psicologica che deriva a
proletari e a militanti comunisti dalle eredità della natura non dell’uomo,
ma del suddito della società capitalistica e della sua orribile ideologia e
mitologia individualistica e «persondignitaria», una sola organizzazione è in
grado di opporre rimedio efficace e risolutivo, e questa è proprio il partito
politico comunista durante la lotta rivoluzionaria e nell’esercizio, che
integralmente ad esso compete, della dittatura di classe. Altri organismi che
lo vogliano surrogare non vanno solo scartati per la loro impotenza
rivoluzionaria, ma anche perché cento volte più accessibili del partito
politico alle influenze degenerative piccolo-borghesi e borghesi. E la critica
a tali organismi, da vari lati e da tempo immemorabile già proposti, va fatta
in linea storica più che in linea «filosofica», restando tuttavia di prima
importanza far vedere come le ragioni addotte dai loro fautori facilmente
rivelano, sotto la nostra indagine, che costoro giacciono nella tenebra di un’ideologia
di origine e di essenza borghese e perfino meno che borghese, come quella degli
intellettualoidi che infestano pericolosamente i margini del movimento operaio.
La forma-partito,
portando organizzativamente il non proletario allo stesso grado del proletario,
è la sola in cui il primo può raggiungere la posizione teoretica e
storica poggiata sugli interessi rivoluzionari della classe lavoratrice, e
finalmente, pure dopo duri storici travagli, servire come mina rivoluzionaria e
non come contromina borghese nelle nostre file.
La superiorità del
partito è proprio quella che esso supera l’infezione del laburismo, dell’operaismo.
Si entra nel partito per effetto della propria posizione nel corpo a corpo
delle forze storiche in lotta per una forma sociale rivoluzionaria, non per il
solitamente vantato servile ricalcamento della posizione personale del
militante, dell’organizzato, «rispetto al meccanismo produttivo «, ossia a
quello creato dalla società borghese, e «fisiologico» per essa e per la sua
classe dominante.
* * *
II. Le organizzazioni
economiche del proletariato schiavo come squallidi surrogati del Partito
rivoluzionario
Storia di sistemi impotenti
Nella lotta contro il
tradimento stalinista e le sue deformazioni della teoria economica, aspetti
mille volte più gravi degli «eccessi di potere» che hanno scandalizzato
trotzkisti e kruscioviani a così diversi stadi, e dei famosi «crimini» con cui
ha gonfiato le scatole tutto il filisteismo mondiale, quacquero e mondoliberista,
abbiamo sempre fatto leva sulla classica tesi di Marx contro Proudhon, come è
formulata nel Libro Primo del «Capitale», capitolo XXIII, nota 24: «Si ammiri
la furberia di Proudhon, che vuole abolire la proprietà capitalistica facendo
valere di contro ad essa (...) le eterne leggi di proprietà della produzione di
merci».
Tutta la schiera dei
pretesi antistalinisti fa leva nella sua critica e nel suo tentativo di
rinnovati programmi, sulla ridicola esigenza di disintossicare – isterilendoli
rivoluzionariamente – il Partito e lo Stato, forme di cui Stalin avrebbe
abusato per effetto della eterna libidine di potere (in Italia si dà
questa rancidissima tesi come testo agli esami di latino: il tiranno, i suoi
servi e la Patria! Cicerone «aggiornatore» di Marx sulla storia vissuta!). È
importante mostrare come tutti quelli che nutrono questa preoccupazione bigotta
(sono, a grattarli, tutti aspiranti a capi, stravolti dalla libidine del
successo personale) ricadono, nella costruzione economico-sociale, nella reazionaria
illusione di Proudhon e hanno gli occhi chiusi alla opposizione storica del
comunismo al capitalismo, che vale opposizione del comunismo e del socialismo
al mercantilismo.
Una prima esposizione di
questa prova deve essere quella storica, che mostri la fine miserabile di tutte
le versioni che cercarono di proporre, al fine di respingere i mostri
del Partito e dello Stato politico, organizzazioni di natura diversa per
inquadrare la classe proletaria nella sua lotta contro il capitale, e per
raggiungere la formazione della società post-capitalista.
Nella terza parte di
questo esposto tratteremo l’aspetto economico, ossia mostreremo che il
traguardo, il programma, che tutti quei movimenti apartitici e «astatali» si
ponevano, era non un’economia socialista e comunista, ma un’illusione economica
piccolo-borghese, che li ha tutti riaffondati nel gioco di forze dei partiti e
degli Stati del moderno capitalismo.
Una prima tesi
pregiudiziale accomuna come antimarxisti tutti questi conati, basati sulle
formule o «ricette» per svariate forme organizzative dagli effetti miracolosi.
Essa orecchia le vecchie e semisecolari banalità dei trafficanti politici e
degli imbonitori, che riducevano le vicende della lotta storica ad un
succedersi di figurini, come nella «moda» del vestire. Cianciavano questi
saputelli: Nella grande rivoluzione francese il motore fu il club
politico, e la lotta tra questi (giacobini, girondini, ecc.) fu la chiave degli
eventi. Poi quella foggia passò di moda e si ebbero i partiti elettorali... poi
si passò ad organismi locali, comunali, preconizzati dagli anarchici... oggi
(pensiamo al 1900) si ha la ricetta modernissima: il sindacato operaio di
professione, che tende a soppiantare tutto e si contrappone (Giorgio Sorel) col
suo potenziale rivoluzionario a Partito e Stato. Vecchissima canzone. Oggi
(1957) sentiamo vantare altra forma «autosufficiente»: il consiglio di
fabbrica, in diversi modi portato sul primo piano rispetto ad ogni altra forma,
da «tribunisti» olandesi, gramsciani italiani, titini iugoslavi, cosiddetti
trotzkisti, gruppetti di «sinistra» da batracomiomachia.
Tutto questo vuoto
discorrere è sepolto da una sola tesi (Marx, Engels, Lenin): «La rivoluzione
non è una questione di forma di organizzazione».
La questione della rivoluzione
sta nell’urto delle forze storiche, nel programma sociale di arrivo che sta
alla fine del lungo ciclo del modo capitalista di produzione. Inventare il fine
invece di scoprirlo nelle determinanti passate e presenti, scientificamente, fu
il vecchio utopismo premarxista. Uccidere il fine e mettere l’organizzazione
dimenantesi al suo posto è il nuovo utopismo post-marxista (Bernstein, capo del
revisioniamo socialdemocratico: Il fine è nulla; Il movimento è tutto).
Ricorderemo brevemente
quelle «proposte» di figurinisti, che presero il proletariato come «indossatore»
e lo caricarono in dure sconfitte del giogo rinsaldato del capitale.
L’ubbía della «comune» locale
Le dottrine anarchiche
sono la espressione della tesi: il male è il potere centrale; e assumono che
nella rimozione di questo sta tutto il problema della liberazione degli
oppressi. L’anarchico non arriva che come concetto accessorio alla classe; egli
vuole liberare l’individuo, l’uomo, facendo proprio il programma della
rivoluzione liberale e borghese. Le imputa solo di avere eretta una nuova forma
di potere, senza osservare che ciò è necessaria conseguenza del fatto che non
ha avuto per contenuto e per forza motrice la liberazione della persona o del
cittadino, ma la conquista del dominio di una nuova classe sociale sui mezzi di
produzione. L’anarchia, il libertarismo – e se si fa un’analisi appena acuta
anche lo stalinismo come è propagandato in Occidente – non sono che il classico
liberalismo rivoluzionario borghese più qualche altra cosa (che chiamano
autonomia locale, Stato amministrativo, ingresso delle classi lavoratrici nei
poteri costituzionali). Con simili balordate piccolo-borghesi il liberalismo
borghese, che nel suo tempo storico è una cosa reale e seria, diventa una pura
illusione castratrice della rivoluzione operaia, nell’oggi di essa abbeverata
fino alla feccia.
Il marxismo invece è la
negazione dialettica del liberalismo capitalista che non vuole conservare in
parte per aggiungervi dei correttivi, ma che vuole di fatto schiantare nelle
istituzioni che ne sono sorte e che, locali e soprattutto centrali, hanno
carattere di classe. Questo compito non è affidato a satollate di bruma
autonomia e indipendenza, ma alla formazione di una forza distruttrice
centrale, le cui forme sono appunto il Partito e lo Stato rivoluzionari,
insostituibili da qualunque altra.
L’idea di svincolare e
autonomizzare l’individuo, la persona, si riduce prima alla ridicola formula
del refrattario soggettivo, che chiude gli occhi e ignora la società e
la sua struttura pesante, che non può infrangere, o nella quale sogna di
inserire un giorno una macchina infernale; tutto per finire nel contemporaneo
esistenzialismo improducente ad ogni effetto sociale.
Questa esigenza
piccolo-borghese, che nacque dalla rabbia del piccolo produttore autonomo
espropriato dal grande capitale e quindi da una difesa della proprietà (che per
Stirner e altri puri individualisti è un «prolungamento della persona» che non
va conculcato) si adattò al grande fatto storico dell’avanzata delle masse
lavoratrici, riconoscendo nell’andare del tempo alcune forme organizzate. Al
tempo della crisi nella Prima Internazionale (dopo il 1870), gli anarchici si
staccano dai marxisti negando ancora le organizzazioni economiche e perfino gli
scioperi: da allora Engels stabilisce che sindacato economico e sciopero non
bastano a risolvere la questione della rivoluzione, ma che il partito
rivoluzionario deve appoggiarli, in quanto, come già nel «Manifesto», il loro
valore sta nella estensione della organizzazione proletaria verso una forma
unica e centrale, che è politica.
In questa fase la
proposta dei libertari è la non ben definita «comune» rivoluzionaria locale,
organo presentato a volta a volta come forza in lotta contro il potere
costituito, che afferma la sua autonomia rompendo ogni legame con lo Stato
centrale, e come forma che gestisce una nuova economia. Non si trattava che di
un ritorno alla prima forma capitalista dei Comuni autonomi della fine del
medio-evo in Italia e nelle Fiandre tedesche ove una giovane borghesia lottava
contro l’Impero; come sempre, era allora fatto rivoluzionario in riguardo allo
sviluppo dell’economia produttiva, oggi è vuoto rigurgito ammantato di falso
estremismo.
Per gli anarchici, in
cinquanta anni di commemorazioni, il modello di questo organo locale era stato
la Comune di Parigi del 1871, che nella ben più potente irrevocabile analisi di
Marx e di Lenin è invece il primo esempio storico grandissimo della dittatura
del proletariato, di Stato centrale e per ora territoriale del proletariato.
Lo Stato capitalista
francese, nella forma della Terza Repubblica di Thiers, si portò per abbattere
Parigi proletaria, fuori della sua capitale, e si dispose a farlo anche da
oltre la cinta delle forze prussiane; Marx poté scrivere, dopo la disperata
resistenza e lo spaventoso massacro, che da quel giorno tutti gli eserciti
nazionali delle borghesie sono confederati contro il proletariato.
Non si trattò di
rimpicciolire la lotta storica da nazionale a comunale (e si pensi ad un povero
inerme comune di periferia!) ma di ingrandirla ad internazionale. Negli anni
della Seconda Internazionale affiorò perfino una nuova versione del socialismo
(che colpì perfino la mente inquieta di Mussolini anteguerra) detta «comunalismo»
che voleva costruire la cellula della società socialista attraverso la
conquista del comune autonomo, ahimè nemmeno dinamitarda come per gli
anarchici, ma col mezzo delle elezioni municipali! Le obiezioni di allora
sarebbero inutili oggi che l’inesorabile sviluppo economico ben noto a chi
segue Marx ha avvolto ogni struttura locale in una sempre più inestricabile
rete di legature al centro, economiche, amministrative, politiche: basti
pensare al ridicolo di ogni piccolo comune ribelle che costruisce una stazione
radio TV almeno per disturbare quelle del nemicissimo Stato centrale. L’idea di
organizzazioni che confederano i lavoratori di un comune, o di un comune che si
dichiara indipendente politicamente e autarchico economicamente, è morta da sé;
ma la illusione borghese della «autonomia» avrà ancora gioco nello imbastardire
la testa e paralizzare le mani di militanti della classe operaia.
Storia più lunga e
complessa avranno le altre forme di organizzazione «immediata» dei lavoratori,
che tenderanno a concludersi nel giro del sindacato di professione e di
mestiere, del sindacato di industria, del consiglio di officina. In quanto tali
forme sono presentate in alternanza col prevalere del partito rivoluzionario
politico, la storia dei loro movimenti e delle dottrine che più o meno
disordinatamente vi si poggiarono, coincide con la storia (cui abbiamo dedicato
ampie trattazioni) dell’opportunismo della Seconda e della Terza
Internazionale, e procureremo di ridurci a pochi richiami, sebbene sia grave la
scarsezza di conoscenza, nelle masse di Europa, di questa storia di immani
sacrifici sostenuti dal proletariato del continente, ed è necessario che esso
giunga un giorno a rifare tesoro di queste tremende esperienze.
La storia del localismo e
del cosiddetto comunismo anarchico o libertario è storia dell’opportunismo nel
seno della stessa Prima Internazionale, di cui Marx si dovette liberare sia con
la critica dottrinale che con una dura lotta organizzativa contro Bakunin e i
suoi tenaci sostenitori in Francia, Svizzera, Spagna e Italia.
Nonostante la storia
della stessa rivoluzione russa, molti «sinistri» e dichiarati nemici dello
stalinismo guardano ancora agli anarchici come ad un possibile punto d’appoggio;
era necessario ristabilire che il liberalismo è una prima forma di malattia del
movimento proletario, ed ha precorso gli altri opportunismi, e quello
stalinista stesso, nello spostare le posizioni politiche e storiche su un
terreno spurio, tale da attirare a fianco del proletariato gli strati
piccolo-borghesi e anche medio-borghesi della società, nel che è stata sempre
la sede di tutti gli errori e la fonte di tutte le rovine. Non si è avuta la
direzione proletaria sulla «massa popolare», ma la distruzione di ogni
carattere proletario nel movimento generale e la servitù del proletariato al
capitale.
Questo pericolo è
denunziato fin dai primi anni del marxismo; e il dire che per affrontarlo
abbiamo oggi più dati di Marx, mentre si fraintende quello che un secolo
addietro era già chiaro, è cosa penosa. Della versione «popolare» della
rivoluzione operaia inorridiva anche Engels, tra cento passi, nella prefazione
alle «Lotte di classe in Francia»: «Dopo la sconfitta del 1849 noi non
condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare... Essa
contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del «popolo»‘
sugli «oppressori»; noi, su una lotta lunga, dopo l’eliminazione degli «oppressori»,
tra gli elementi antagonistici che si celavano appunto in questo «popolo»«.
Per la dottrina marxista,
da allora esistono i fondamenti per condannare le odierne versioni popolari
di «tutti» gli opportunisti, compresi i gruppetti quadrifogliari e barbaristi,
che agli eventi ungheresi hanno testé dedicato lunghe palinodie, in cui come
sempre falsano un moto «popolare» in moto di classe.
Mette il «popolo» al
posto della classe ognuno che, mettendo la classe proletaria prima e sopra il
partito comunista, crede renderle omaggio supremo, mentre la declassa, la
annega nella incertezza «popolare», e l’immola alla controrivoluzione.
Mito del sindacato rivoluzionario
Sulla fine dell’Ottocento
i partiti politici del proletariato erano divenuti organizzativamente potenti e
numerosi in tutta l’Europa; loro modello era
Ma proprio nel seno di
questo partito si era sviluppata una nuova corrente detta revisionista,
di cui massimo teorico fu Edoardo Bernstein, la quale apertamente sosteneva che
lo sviluppo della società borghese e i suoi nuovi aspetti, durante l’epoca di
relativa tranquillità sociale ed internazionale succeduta alla grande guerra
franco-prussiana, indicavano «nuove vie al socialismo», diverse da quella di
Marx.
Fu adoperata allora, e
non se ne meraviglino i giovani militanti operai di oggi, proprio la medesima
frase lanciata dopo il XX Congresso russo del 1956, con le stessissime parole
che tutti credono coniate adesso, nuove di zecca! Il revisionista italiano
Bonomi, espulso dal partito socialista nel 1912, ministro della guerra che
sotto Giolitti sbrigò il compito di far mitragliare non i fascisti ma i
proletari che combattevano contro di essi, poi uno dei capi del governo della repubblica
antifascista, scrisse mezzo secolo fa un libro con quel titolo: Le nuove vie
del socialismo. Giolitti ne trasse la bella frase che i socialisti avevano
messo Marx in soffitta. Il presente movimento della sinistra internazionale
comunista si ricollega ai gruppi della frazione di sinistra che, in quei
lontani anni, risposero chiamando il loro giornale «La soffitta».
I revisionisti
sostenevano che nella nuova situazione dell’Europa e del mondo capitalista il
passaggio al socialismo e la emancipazione della classe operaia non avrebbero
richiesto lotte insurrezionali, impiego di violenza armata, conquista
rivoluzionaria del potere politico, e tolsero di mezzo del tutto la tesi
centrale di Marx: la dittatura del proletariato.
Al posto di questa «visione
catastrofica» fu posta l’azione legalitaria ed elettorale, quella legislativa
in parlamento, e si giunse fino alla partecipazione di eletti socialisti ai
ministeri borghesi (possibilismo, millerandismo) al fine di promulgare leggi
favorevoli al proletariato, sebbene i Congressi internazionali fino alla Prima
Guerra Mondiale avessero sempre condannato tale tattica, e fin da prima di essa
i collaborazionisti alla Bonomi (non i Bernstein, o in Italia i Turati)
venissero messi fuori dal partito.
A tale degenerazione
della politica oltre che della dottrina dei partiti socialisti, di cui non
possiamo qui occuparci più a lungo, seguì in larghi strati operai una ondata di
sfiducia verso la forma del partito politico, che dette gioco favorevole
ai critici antimarxisti ed anarchici; e in un primo tempo solo correnti meno
importanti si posero sul terreno di lotta al revisionismo con l’indirizzo di
restare fedeli alla dottrina originaria del marxismo (radicali in Germania,
intransigenti rivoluzionari in Italia, altrove duri, stretti, ortodossi
e simili).
Queste correnti, a cui
per la Russia corrispondeva il bolscevismo con Plechanov (finito male con la
guerra, al pari del germanico Kautsky) e Lenin, non cessarono un istante di
rivendicare
La forma primogenita dell’organizzazione
proletaria era per essi il sindacato economico, che in prima linea
doveva non solo condurre la lotta di classe per la difesa degli immediati
interessi operai, ma anche prepararsi, senza alcuna soggezione ad un partito
politico, alla direzione della guerra rivoluzionaria finale per l’abbattimento
del sistema capitalistico.
I soreliani e il marxismo
Ci condurrebbe assai
lontano l’analisi dell’impostazione e della evoluzione di tale dottrina, sia
nel suo capo ideologico Sorel che nei gruppi multiformi che in vari paesi la
seguirono; e come abbiamo chiarito non tratteremo in sintesi che il suo
bilancio storico e la sua molto discutibile prospettiva di una società non-capitalista
futura.
Sorel e non pochi dei
suoi seguaci, anche in Italia, dichiararono all’inizio di essere i veri
continuatori di Marx contro il travestimento pacifistico ed evoluzionistico dei
revisionisti legalitari. Finirono poi col dover ammettere che essi
rappresentavano un altro revisionismo, a prima vista da sinistra anziché da
destra, ma che in realtà era legato alle stesse origini e conteneva gli stessi
pericoli.
Ciò che Sorel assumeva di
ritenere da Marx era l’impiego della violenza e l’urto della classe proletaria
contro gli istituti ed i poteri borghesi, e soprattutto contro lo Stato. Egli
mostrava così di aver mantenuto fede alla critica di Marx, giusta la quale lo
Stato contemporaneo uscito dalla rivoluzione liberale, nelle sue forme democratiche
e parlamentari, non cessa di essere lo squisito organo di difesa degli
interessi della classe dominante, il potere della quale non può essere
abbattuto per le vie costituzionali. I soreliani rivendicarono l’azione
illegale, l’uso della violenza, lo sciopero generale rivoluzionario, e fecero
di tale parola il loro massimo Ideale, in un tempo in cui nella maggioranza dei
partiti socialisti tali consegne venivano fieramente sconfessate.
Sebbene lo sciopero
generale soreliano, in cui culmina la teoria dell’»azione diretta» (ossia senza
intermediari legalmente eletti tra proletariato e borghesia), venga concepito
come simultaneo per tutti i mestieri operai, tutte le città di uno Stato, ed
anche come internazionale, in realtà la insurrezione dei sindacalisti conserva
la forma e il limite di una azione di singoli, o al più di gruppi sporadici; e
non assurge al concetto di una azione di classe. Ciò è dovuto al suo orrore di
una organizzazione politica rivoluzionaria che non può non avere anche forme
militari, e, dopo la vittoria, statali (Stato proletario, Dittatura), mentre i
soreliani, ricalcando le orme dei bakuniniani di trent’anni prima, non vogliono
Partito, Stato, Dittatura. Lo sciopero generale nazionale dato per vittorioso
coincide (nello stesso giorno?) con la espropriazione (nozione di sciopero
espropriatore) e la visione del passaggio da una forma sociale all’altra è
tanto nebulosa e labile, quanto fu deludente e caduca.
Nel
Sorel e tutti questi suoi
epigoni in sostanza sono fuori dal determinismo marxista, e il gioco degli
effetti tra sfera economica e politica resta per loro lettera morta; essendo
individualisti e volontaristi, vedono nella rivoluzione un atto di forza solo
dopo che vi hanno visto un impossibile atto di coscienza. Sono dei
capovolgitori del marxismo, come mostra Lenin in «Che fare?» Fatta scattare nel
foro interiore della persona coscienza e volontà, dato che ci sono, di
un solo balzo radono al suolo lo Stato borghese, la divisione in classi, la
psicologia di classe. Non intendono l’alternativa: dittatura capitalista o
comunista, e ne escono per la sola via storica possibile: rimettono in piedi
Non ci interessa seguire
oltre Giorgio Sorel nella sua logica strada: idealismo, spiritualismo, grembo
della chiesa cattolica.
La prova della guerra mondiale
Come già più volte
avvertito, non possiamo certo dare qui tutta la storia critica del disastro
socialista allo scoppio (agosto 1914) della prima guerra mondiale. Va solo
ricordato se la rovina travolse soltanto i partiti politici o anche le
organizzazioni sindacali, e gli stessi ideologi della scuola sindacalista, che
non si volevano chiamare partito, ma in effetti lo erano, con una base di
classe piccolo-borghese a dispetto della loro superstizione di purezza operaia.
Allora essi formavano, come del resto dal più al meno hanno sempre fatto gli
anarchici, «gruppi» che si dichiaravano apolitici, aelezionisti, aparlamentari,
apartitici (perdonate tutte queste orribili parole all’abuso dell’alfa
privativo). Abbiamo esempi del tutto contemporanei come tutto questo pudore per
il Partito e la politica rivoluzionaria finisca col permettere a questi labili
e rilasciati aggruppati di stare nei partiti opportunisti e borghesi e
fare campagne elettorali per sporchi traditori di classe. Autonomia
soprattutto!
È indiscutibile, ed è materiale
di base di tutta la restaurazione del marxismo rivoluzionario condotta al tempo
di Lenin, che i più grandi partiti socialisti dell’Europa ci fecero assistere
ad una schifosa bancarotta. Non dovremo raccontare ancora di Vladimiro che per
tre settimane fu inavvicinabile anche dalla incomparabile compagna, calpestava
i giornali non credendo alle notizie, si aggirava torvo nella stanzetta
svizzera come una belva in gabbia.
Non togliamo nulla a
quanto abbiamo sempre detto e fatto contro i parlamentari traditori che avevano
votato i crediti di guerra ed erano entrati nei governi di unione sacra. Ma in
Italia si svolse, con il vantaggio di nove mesi di attesa, la zuffa per
impedire la defezione dei capi del partito a pochi giorni dall’ordine di
mobilitazione. La dirigenza del partito teneva bene, il gruppo parlamentare
sebbene in maggioranza di corrente riformista era contrario allo sciopero
generale nazionale, ma si impegnava a votare contro i crediti e il governo, e
lo fece unanime: quelli che tennero la posizione più disfattista furono i capi
della Confederazione del Lavoro, che dovemmo smascherare nel loro sabotaggio
della proposta di sciopero: dicevano che ne temevano il fallimento; invece ne
temevano la riuscita per motivi di patriottismo borghese.
In tutti i paesi furono
le grandi centrali sindacali che rimorchiarono i partiti politici sulla strada
della incommensurabile vergogna. Così in Francia e in Germania ed in Austria.
In Inghilterra il mostro di tutti i tempi, il campione dell’antirivoluzione, il
Labour Party, cui sono affiliate le Trade Unions, ossia i
sindacati economici, passò compatto dalla parte della guerra, mentre il piccolo
partito socialista britannico teneva atteggiamento di opposizione.
I critici soreliani del
parlamentarismo avevano giustamente denunziate molte vergogne, ma non avevano
pensato che i deputati operai bazzicanti le anticamere dell’amministrazione
borghese vi erano sospinti dagli organizzatori sindacali che volevano portare
concessioni materiali ai loro associati. L’opportunismo di cui allora scoppiò
il più classico bubbone – come avvertito da Lenin, e da Engels e Marx fin dalle
lettere sulla controrivoluzione tedesca nel 1850 – non ha la sua origine, ma
solo una sua inseparabile manifestazione, nel tradimento o nella viltà dei capi
rivoluzionari. L’opportunismo è un fatto sociale, un compromesso tra le classi
che avviene in profondità, e sarebbe follia non vederlo. Il capitalismo offrì
un patto agli operai industriali esonerati dal servizio militare. Se in Italia
il Sindacato Ferrovieri si oppose alla Confederazione del Lavoro sulla
questione dello sciopero, in cui i suoi soci giocavano il «bracciale azzurro»,
fu per forza politica e per gli aperti legami tra questo combattivo organismo e
l’ala estrema del partito marxista.
Nella crisi del 1914,
come in tutte le altre analoghe anche se meno clamorose, i sindacati economici
furono – nelle loro cerchie direttive, ma che gli operai non spazzarono via
come non fecero i militanti di partito con i capi, né gli elettori socialisti
coi deputati, se non dopo lunghi anni di lotte – palle di piombo ai piedi dei
partiti di classe. I soreliani non avevano vista tutta questa congerie di
fenomeni evidenti, quando avevano proposto come rimedio al revisioniamo di
boicottare i partiti e rifugiarsi nei sindacati operai.
Ben più accadde in
Francia e in Italia, ove vi erano confederazioni sindacali anche della corrente
sindacalista-anarchica. In Francia questa era maggioritaria, col suo segretario
Jouhaux, soreliano per la pelle e nemico del partito e del suo gruppo
parlamentare. Ma non solo Jouhaux, seguito da tutta la sua organizzazione e le
sue masse, salvo minoranze al primo stadio assolutamente trascurabili, seguì la
politica patriottarda dei deputati socialisti, quanto perfino il famoso e colto
anarchico Eliseo Reclus, e il più famoso (sebbene asino) Gustavo Hervé, capo
degli antimilitaristi europei, direttore della «Guerra sociale», organizzatore
del citoyen-Browning, o cittadino-revolver, che aveva preso l’impegno di
piantare le drapeau tricolore dans le fumier, la bandiera francese nel
letame. Cambiò in Victoire il titolo del giornale, avviò la più velenosa
campagna di odio ai boches, e andò ad arruolarsi nel fumier,
degno di lui.
Dalle file soreliane non
uscì dunque nulla di meglio che da quelle del partito SFIO, sebbene fin da
allora come marxismo non valesse tre soldi falsi. I sindacalisti «apartitici»
fecero la fine dei Guesde e dei Cachin, che vennero a comprare coi franchi
dello Stato francese il giornale di Mussolini (si tratta del secondo, più
recente comunista e antifascista resistente, dopo parentesi hitleriana).
In Italia vi era, di
fronte alla Confederazione del Lavoro,
L’organizzazione di fabbrica
La proposta di rinunziare
al partito politico proletario per portare il baricentro della lotta
rivoluzionaria sul sindacato di mestiere, da un primo lato comporta
teoricamente l’abbandono totale delle basi della dottrina marxista, e non è
proponibile se non da chi – come fecero alla fine i soreliani e come avevano
fatto i bakuniniani – ne abiuri il credo filosofico ed economico; mentre
nel suo bilancio storico si dimostra priva di qualunque fondamento. Il
ragionamento che nei partiti possono entrare elementi non aventi stretta
origine dalla classe proletaria, che finiscono con assumere i posti direttivi,
mentre questo non avverrebbe nei sindacati – e non è vero – rimane svuotato,
dagli esempi storici più clamorosi, di qualunque consistenza.
La limitatezza dell’orizzonte
sindacale rispetto a quello politico sta nel fatto che esso non ha uno sfondo
di classe, ma appena di categoria, e risente della medioevale rigida
separazione dei mestieri. Non rappresenta un passo innanzi la più recente
trasformazione del sindacato di mestiere (o professionale) in sindacato di
industria. In questa forma, ad esempio, un operaio falegname ma che lavora
nella fabbrica di automobili farà parte della federazione del metallo e non di
quella del legno. Ma le due forme hanno di comune il fatto che alla base
il contatto tra gli associati avviene soltanto tra elementi che hanno di
comune, e quindi trattano, solo i problemi di uno stretto settore produttivo, e
non tutti i problemi sociali. La sintesi degli interessi dei gruppi proletari
locali professionali ed industriali si fa solo tramite un apparato di
funzionari delle organizzazioni.
Il superamento della
limitatezza degli interessi si attua quindi solo nell’organizzazione di partito
che non separa i proletari per professione né per settore produttivo.
Dopo la prima guerra
mondiale, essendo a tutti palese che il tradimento della causa sociale risaliva
non solo ai gruppi parlamentari e ai partiti, ma anche alle grandi
organizzazioni e confederazioni sindacali, ebbe grande impulso la
sopravvalutazione di una nuova forma di organismo immediato dei proletari
industriali: il consiglio di fabbrica.
I teorizzatori di questo
sistema vollero sostenere che meglio di ogni altro esso potesse esprimere la
funzione storica della moderna classe lavoratrice, su un duplice piano. La
difesa degli interessi degli operai nei confronti del padrone passava dal
Sindacato al Consiglio di fabbrica, sia pure collegato con gli altri nel «Sistema
dei Consigli» secondo località, regioni e nazione, e secondo settori d’industria.
Ma una nuova rivendicazione sorgeva: quella del controllo della
produzione, e, più lontana, quella della gestione. I Consigli avrebbero
rivendicato di avere voce non solo nel trattamento degli operai da parte della
ditta quanto a salari, orari ed ogni altro rapporto, ma anche nelle operazioni
tecnico-economiche finora lasciate alla decisione dell’azienda: programmi di
produzione, acquisto di materie prime, destinazione dei prodotti. Una serie di «conquiste»
in questa direzione si poneva come traguardo la totale gestione operaia,
ossia la effettiva eliminazione, espropriazione dei padroni.
Questo miraggio in un
primo tempo seducente fu subito, almeno in Italia, considerato dai marxisti
rivoluzionari come del tutto ingannevole. Da questa prospettiva restava
eliminata la questione del potere centrale, poiché si ammettevano coesistenti
(un primo esempio di coesistenza, del lupo e della pecora!) il potere
dello Stato borghese ed un grado avanzato di controllo operaio; ed una
rata perfino di gestione operaia su un certo numero o aggruppamento di
aziende.
Non si tratta che di un
nuovo revisionismo, di un riformismo in edizione piuttosto peggiorata che
migliorata, se si tiene conto che in questo sistema ipotetico viene meno, nello
incrociarsi delle gestioni locali, il piano sociale della produzione e dell’economia,
che i revisionisti classici affidavano ad uno Stato politico conquistato con
mezzi pacifici dalla classe operaia.
È facile stabilire in
dottrina che si tratta di un sistema tanto antimarxista quanto quello del
sindacalismo soreliano. Con procedimento non dissimile vediamo i sospettati
personaggi: Partito di classe e Stato di classe, eliminati dal
succedersi delle scene del dramma; mentre i revisionisti classici si limitavano
al sabotaggio aperto della violenza di classe e della dittatura di classe,
sotto l’aspetto formale. Nella sostanza, sono la rivoluzione e il socialismo
che in ambo i casi se ne vanno.
Seguitando nei decenni
successivi a dare credito alla diffidenza banale verso le due forme Partito
e Stato, si è venuto a confondere il «contenuto del socialismo» con
questi due postulati: controllo operaio sulla produzione, gestione operaia
della produzione. E questa roba sarebbe il nuovo marxismo.
Ha Marx detto qual’è il «contenuto
del socialismo»? Marx non ha risposto ad un quesito tanto metafisico. Il
contenuto di un recipiente può essere tanto l’acqua che il vino o un liquido
ignobile. Ci possiamo da marxisti chiedere quale sia il processo storico che
conduce al socialismo, e ci possiamo chiedere quali siano i rapporti tra gli
uomini che si avranno «nel socialismo» ossia nella società non più capitalista.
Sotto questi due profili
sono pure sciocchezze le risposte: controllo della produzione nella fabbrica,
gestione della fabbrica, o l’altra che spesso le accompagna: autonomia del
proletariato.
Se ci riferiamo al
processo storico che conduce al socialismo, esso, a partire da una società
pienamente industriale capitalistica, abbiamo detto come lo vediamo, da un
secolo: formazione del proletariato, organizzazione del proletariato in partito
politico di classe, organizzazione del proletariato in classe dominante. Da
questo momento solo comincia il controllo e la gestione della produzione non nell’azienda
e da parte del consiglio del personale, ma nella società, e da
parte dello Stato di classe, condotto dal Partito di classe.
Se questa ricerca del
risibile «contenuto» si riferisce alla società pienamente socialista, a più
forte ragione le formule di controllo operaio e gestione operaia
perdono ogni senso. Nel socialismo non vi è più la società sezionata tra
produttori e non produttori, perché non vi è più società divisa in classi. Il
contenuto (se si vuole usare questa bolsa espressione) del socialismo non sarà
l’autonomia, il controllo e la gestione del proletariato, ma la sparizione
del proletariato. Del salariato. Dello scambio, anche dell’ultimo: tra
moneta e forza-lavoro. E infine, dell’azienda. Nulla vi sarà da
controllare e gestire, nessuno rispetto a cui chiedere autonomia. Questi
ideologismi mostrano in chi li adopera solo la totale impotenza teorica e
pratica a lottare per una società che non sia una cattiva copia di quella
borghese. Chiedono l’autonomia (di essi stessi) solo da un compito arduo, dalla
forza del Partito di classe, dalla dittatura rivoluzionaria. Il giovanissimo
Marx fresco di formule hegeliane (in cui quella gente crede ancora oggi)
avrebbe risposto che chi cerca l’autonomia del proletariato trova l’autonomia
del borghese, eterno modello dell’uomo (vedi «Questione ebraica»).
Storia della formula aziendale
I Consigli degli
ordinovisti italiani hanno precedenti in paesi anglosassoni, e hanno i loro
antenati nelle antiche gilde di maestranze, che non nascono per la guerra a un
padrone borghese ma per la guerra ad altre gilde e a forme signorili e
terriere.
Quando si dette della
rivoluzione russa il travisamento sciagurato, da primo capitolo della
rivoluzione proletaria europea a lotta dei contadini per la «conquista della
terra», si creò il superficiale parallelo della «conquista della fabbrica». Per
queste vie si tralignò e si traligna dalla via maestra della conquista del
potere, e della società.
A suo luogo abbiamo
trattato la liquidazione leninista di questo problema per la Russia, nella
questione agraria e in quella industriale, e non occorre ripeterci.
Sindacalisti e anarchici di tutto il mondo revocarono le loro simpatie alla
rivoluzione russa quando capirono che il controllo operaio e contadino. di
Lenin era derivato dal troncone possente del controllo del potere e si riferiva
ad aziende che lo Stato russo non poteva ancora espropriare. I tentativi di
gestione autonoma delle fabbriche dovettero essere repressi, e talvolta con la
forza, per evitare disastri economici e assurdi, antisocialisti negli stessi
effetti politici e militari, di guerra civile.
Fu presto dispersa la
confusione tra lo Stato dei consigli operai, organi territoriali e
politici, e la finzione ordinovista dello Stato dei Consigli di azienda,
autonomi nella propria gestione. A tal riguardo basta leggere le tesi del II
Congresso dell’Internazionale Comunista sui sindacati e consigli di fabbrica,
che definiscono il compito di tali organi prima e dopo
Ci interessa dare un
cenno della esperienza italiana. Nel 1920 si ebbe il celebre episodio dell’occupazione
delle fabbriche. Gli operai, apertamente scontenti del contegno imbelle dei
grandi sindacati confederali, e spinti dalla situazione economica e dalle
pretese offensive degli industriali dopo la prima euforia postbellica, si
asserragliarono nelle fabbriche, dopo averne espulsi i dirigenti, mettendole in
stato di difesa, e tentando in molte località di continuare il lavoro, e
talvolta di disporre dei prodotti manufatti in via commerciale.
Questo movimento avrebbe
potuto avere sviluppi grandiosi se a quel momento, nel settembre del 1920, il
proletariato italiano avesse avuto un partito rivoluzionario forte e deciso:
era invece in pieno sviluppo la crisi del partito socialista, dopo il congresso
unitario di Bologna del 1919, seguito dalla strepitosa vittoria elettorale coi
150 deputati al parlamento, e si svolgeva la crisi del falso estremismo dei «massimalisti»
di Serrati, che si doveva risolvere solo nel gennaio del 1921 con la scissione
di Livorno. Le decisioni erano sempre rimesse ad ibride convocazioni della
dirigenza del partito (con alcune organizzazioni periferiche di esso, contese
fra le varie tendenze), dei parlamentari socialisti e dei capi della
Confederazione del Lavoro. Invano la Sinistra sostenne che il solo partito
doveva affrontare simili problemi della lotta politica operaia e dare le
consegne: deputati ed organizzatori sindacali non avrebbero dovuto che
eseguirle, in quanto membri del partito. Si trattava di azioni a scala
nazionale e squisitamente politiche.
D’altra parte in un’orgia
di false posizioni estremiste si ebbe la prova di quanto sia rovinosa
nel partito la mancanza
di salde basi dottrinarie. Si confuse il generoso moto di invasione delle
fabbriche con la costituzione in Italia dei Soviet, o Consigli operai, si parlò
di proclamarla da parte di quelli stessi, che si opponevano alla parola di
azione della conquista del potere. Si dimenticarono le nettissime posizioni di
Lenin e dei Congressi mondiali per cui i Soviet non sono organismi che possano coesistere
con lo Stato tradizionale, ma sorgono in un periodo di aperta lotta per il
potere e quando lo Stato vacilla, per sostituirsi ai suoi organi esecutivi e
legislativi borghesi. Nella generale confusione e nella assurda collaborazione
tra rivoluzionari e legalitari il moto cadde nella impotenza.
Il capo borghese Giolitti
ebbe una molto più chiara visione. Anche sotto il profilo costituzionale egli
avrebbe potuto disporre la espulsione con la forza armata degli operai che
avevano occupato gli stabilimenti: si guardò bene dal farlo malgrado gli
incitamenti di forze di destra e del nascente fascismo. Gli operai e le loro
organizzazioni non mostravano intenzione alcuna di uscire armati dalle officine
occupate e praticamente inerti, per attaccare le forze borghesi e tentare di
occupare le sedi della amministrazione e della polizia; la fame li avrebbe
spinti fuori dalla insostenibile posizione assunta. Giolitti non fece
praticamente sparare una fucilata sola, ma il moto fallì miseramente e ben
presto i dirigenti e padroni capitalisti riebbero il possesso e la direzione
delle fabbriche negli stessi rapporti di prima, dopo un trascurabile numero di
incidenti. La bufera era passata senza alcun serio disturbo per il potere ed il
privilegio di classe.
Tutta la storia degli
anni italiani del dopoguerra dimostra chiaramente come anche in condizioni
favorevoli la lotta proletaria sia votata al fallimento quando manca il partito
rivoluzionario che sia in grado di porre la questione del potere in maniera
radicale; e lo dimostra la storia del fascismo.
Si trattò della
bancarotta della formula che vuole sostituire alla rivoluzione per il controllo
politico della società, all’assalto contro lo Stato borghese, e alla
istituzione della dittatura proletaria, l’illusione meschina del controllo e
della conquista dell’azienda di produzione da parte degli operai, organizzati
in consigli di azienda che raccolgono tutta la maestranza, senza tener conto di
direttive politiche ed appartenenza a partiti.
La corrente italiana dell’ordinovismo
non giunse allora a sostenere l’inutilità del partito, perché le vicende della
Terza Internazionale la condussero a convergere sulla tattica di contatti tra i
vari partiti proletari anche riformisti ed opportunisti, e perché la sua
ideologia era quella di un fronte unico di classe tra operai, industriali e
piccolo-borghesi. Ma gli eventi ulteriori e la storia del trionfo dell’opportunismo
in Italia e nell’Internazionale mostrarono quale pericoloso punto di partenza
fosse la dottrina del Consiglio di azienda sufficiente a se stesso e alla causa
rivoluzionaria, e l’illusione che basti alla vittoria del comunismo il passaggio
della singola impresa di produzione dalle mani del padrone a quelle del
personale, al di fuori della questione generale di una nuova organizzazione di
tutta la vita umana, in cui il vecchio schema produttivo cui aderiscono le reti
immediate degli organismi sindacali e aziendali deve essere prima denunziato e
poi frantumato da cima a fondo.
Vano ritorno a formule svuotate
Ad ogni ondata del
processo di involuzione che la grande tragedia russa ci ha presentato e ci
presenta, si succedono i tentativi di ridare vita a forme di organizzazione
proletaria diverse da quella su cui i grandi pionieri della rivoluzione d’ottobre
fondarono tutto l’immenso sforzo che li portò alla testa della minacciosa
avanzata proletaria e anticapitalista alla fine della prima grande guerra
mondiale: il Partito politico e la Dittatura proletaria.
Nessuna utile costruzione
teorica e pratica di una grande ripresa del movimento di classe uscirà mai da
questa trepida diffidenza per le forme di organizzazione indispensabili al
capovolgimento storico del rapporto di dominazione di classe: Partito e Stato.
L’obiezione puerile si riduce tutta alla convinzione che vi sia nella natura
dell’uomo una insuperabile condanna a volgere l’esercizio del potere, dalla
difesa della causa delle forze sociali che hanno dato il mandato alla rete «gerarchica»
(la parola è esatta), alla difesa dell’interesse individuale e della libidine
vanesia del soggetto rivestito nel partito e nello Stato da funzioni di potere.
Il marxismo consiste
nella dimostrazione dell’inesistenza di questa fatua condanna, e della
dipendenza delle azioni del singolo da forze svolte dagli interessi generali,
tanto quando si tratta di azioni di singoli che reagiscono come semplici
molecole della massa in parallelo ad altre, quanto – e soprattutto – quando si
tratta di unità collocate dalla dinamica sociale nei punti nodali, cruciali,
della lotta storica.
O leggiamo la storia da
marxisti, o ricadiamo nelle masturbazioni scolastiche che spiegano colossali
eventi con la manovre del monarca che riesce a legarle come causa efficiente
alla trasmissione della corona all’erede o al lignaggio, coi capolavori del
condottiero a cui ne detta la capacità l’intento di essere glorificato ed
immortalato dai posteri! Il legame tra una antiveggenza cosciente, una volontà
motrice, e un risultato diretto che «plasma» la società e la storia, noi lo
consideriamo vietato all’individuo, non solo al povero cristo-molecola sperso
nel magma sociale, ma soprattutto al coronato, allo scettrato, al rivestito di
cariche, di onori e dal nome costellato di titoli prefissi ed iniziali
maiuscole. È proprio costui che non sa quello che vuole e non ottiene quello
cui pensava, e al quale, se si scusa la nobile immagine, il determinismo
storico riserva la più alta dose delle sue pedate nel sedere. È il capo – se si
accetta la nostra dottrina – che riveste al massimo la funzione di marionetta
della storia.
Il succedersi di tutte le
rivoluzioni, quando studiate con la chiave del sopraffarsi delle forme
produttive, ci mostra una fase dinamica in cui la regola è che i combattenti,
forze espresse da una determinante sociale verso un maggiore benessere, reggono
nei ranghi e nelle prime file con alto sacrificio ed immolano, oltre la vita
fisica, la «carriera verso il potere», obbedendo alle forze ancora indecifrate
che accompagnano il parto storico della forma di domani. Nella fase finale di
ogni forma questa dinamica sociale si scompone perché un’altra opposta ne sta
sorgendo, e la difesa conservativa della forma tradizionale tende a mostrarsi
assicurata da personali egoismi, da panciafichismo individuale, da crassa
corruzione, come ne dettero esempio concussori, pretoriani, cortigiani feudali,
sacerdoti in deboscia, bassi burocrati dell’affarismo borghese odierno.
E malgrado questo la
difesa della forma capitalistica contro la sua caduta, pure in un lago sociale
di cinismo e di strafottenza esistenziale di tutti i suoi sgherri e sguatteri
di cucina, viene ancora condotta con continuità e vigore dalle reti organizzate
degli Stati e dagli stessi partiti politici della classe dominante, che a più
svolte storiche hanno mostrato come si organizzino saldamente in una forza
unica controrivoluzionaria (e in questo non alludiamo solo alla Germania ed
Italia fasciste, ma alla stessa Inghilterra, America e Russia contemporanee, se
si sa guardare un poco oltre la ipocrisia corticale). E tra l’altro ci hanno
mostrato come osino venire a rubarci la potenza ardente dei nostri segreti
sulla geologia dei sottosuoli storici!
Noi, proprio noi,
dovremmo essere tanto imbelli da disonorare la forza e la forma che questa
nostra propria e irrefrenabile energia dovrà rivestire, il Partito
rivoluzionario e lo Stato di ferro della dittatura, che avranno nei nodi della
rete indubbiamente persone anche in funzioni singole, ma che riveleranno come
esse non manovrino e non decidano segreti intrighi e sorprese, ma procedano
sulla ferrea linea del compito che il divenire storico ha prescritto agli
organi della irreversibile rivoluzione tra le forme economiche e sociali?
La proposta di cercare garanzie
contro il tralignare di un capo o di un incaricato di una qualunque funzione in
organismi diversi dal partito dimostra il rinnegamento di tutta la nostra
costruzione dottrinale, e non altro.
Infatti la rete dei «capi»
e dei «gerarchi» esiste in tali organismi non diversamente che nel partito; in
genere nemmeno essa è formata di soli operai; e un lato chiaro e doloroso dell’esperienza
storica ha insegnato che l’ex operaio che ha lasciato il lavoro per la carica
sindacale è in genere più proclive a tradire la sua classe che non l’elemento
venuto da strati non proletari; gli esempi si potrebbero dare a migliaia.
Tutta questa palinodia
viene di solito presentata come accostamento, legame più stretto, più serrata
aderenza alle «masse». Cosa sono le masse? Sono la classe ancora senza energia
storica, ossia senza partito che la saldi alla sua via storica rivoluzionaria,
e quindi la classe legata ed aderente solo alla sua situazione di soggezione,
alle catene della sua distribuzione nell’organamento sociale borghese. Oppure,
in date situazioni storiche, le masse quantitativamente debordano dalla «classe»
operaia perché comprendono strati semiproletari.
Il nostro svolgimento,
con fedeltà assoluta ai dettami della scuola marxista, mostra un duplice
momento storico di questa situazione, e nella distinzione si può sintetizzare
quanto precede.
Quando la rivoluzione
borghese doveva ancora esplodere e si trattava di abbattere le forme feudali,
come nell’esempio della Russia del
Gli odierni opportunisti
russi nella loro corsa travolgente verso il rinnegamento di ogni indirizzo
rivoluzionario non hanno, è vero, ancora buttata tra i ferri vecchi la forma
partito, ma ad ogni tappa della loro involuzione si giustificano col richiamo
alle masse, e fanno vanto a loro comodo della solidarietà di esse.
Altra prova a
posteriori, e storica, non ci occorre della completa inconsistenza di
quella antica, subdola, e fastidiosa ricetta, e del come essa sia stata alla
base della liquidazione del partito rivoluzionario.
* * *
III. Snaturamento piccolo-borghese dei caratteri della società
comunista nelle concezioni «sindacaliste» ed «aziendiste» dell’inquadramento
proletario
Insostituibilità del partito
La pretesa di una
completa aderenza di struttura dell’organizzazione operaia di lotta con la rete
di produzione dell’economia industriale borghese, pretesa giunta alla sua
estrema espressione col sistema di Gramsci, e alla quale oggi si richiamano
diversi gruppi di critici della degenerazione staliniana, accompagna, e non
poteva essere diversamente, la sua impotenza di azione alla sua incapacità a
scorgere i caratteri di opposizione fra la struttura economica di oggi e quella
di domani, la società comunista che attraverso la vittoria di classe del
proletariato prenderà il posto della società capitalista. In ciò resta
grandemente al di sotto dei classici risultati della critica eretta dal
marxismo alla economia presente.
Il suo errore economico
si accompagna in tutto a quelli che denunzia il sistema staliniano e che sono
stati aggravati enormemente dalle fasi post-staliniane inaugurate col XX
Congresso russo, proprio quando si è levata la bandiera di criticare e
correggere Stalin. L’errore è sempre quello, e sta nello scorgere il miraggio
di una società in cui gli operai abbiano avuto partita vinta sui padroni entro
la comune, entro il mestiere e entro l’impresa, ma siano rimasti imprigionati
nelle maglie di una sopravvivente economia di mercato, senza accorgersi che
questa è la stessa cosa del capitalismo.
Le caratteristiche di una
società non capitalista e non mercantile quali risultano dal vero studio
marxista, come risultato di una previsione critica e scientifica libera da ogni
«goccia» di utopismo, possono essere raggiunte e possedute, nella forma
programmatica, solo dal partito, in quanto esso appunto non ha la schiavitù
di «aderire» allo schieramento che alla classe produttrice impone il modo
capitalista. Le esitazioni davanti alla necessità della forma-Partito e della
forma-Stato, diventano smarrimento completo delle conquiste programmatiche
quanto a completa antitesi delle forme comuniste rispetto a quelle
capitalistiche, di cui era ben padrone il partito della scuola marxista. Basti
pensare ai postulati cui il programma marxista perviene: abolizione della
divisione tecnica e sociale del lavoro, che vuol dire rottura dei confini tra
azienda ed azienda di produzione; abolizione del contrasto tra campagna e
città; sintesi sociale della scienza e della attività pratica umana, per
intendere come ogni tracciato «concreto» per l’organizzazione e l’azione
proletaria che si proponga di riflettere in sé la presente ossatura del mondo
economico, si condanni a non uscire dai caratteri e dai limiti propri delle
attuali forme capitalistiche, e nello stesso tempo si condanni a non capire di
essere antirivoluzionario.
La strada per uscire da
questa inferiorità passa, sia pure in una lunga serie di contrasti, per organi
eretti senza alcun materiale ed alcun modello tratto dagli organi del mondo
borghese, e che possono essere solo il Partito e lo Stato proletario, nei quali
la società di domani si cristallizza prima di essere storicamente esistente.
Negli organi che diciamo immediati e che copiano e serbano l’impronta della
fisiologia della società attuale, non può altro in potenza cristallizzarsi che
la ripetizione e la salvezza di questa.
La forma comunale
La ristrettezza di
visione dei libertari che polemizzavano con Marx nella Prima Internazionale
intorno al 1870 e che abbiamo già ricordati, e la stranezza del pregiudizio
diffusissimo che di Marx essi fossero «più avanzati», è evidente dal fatto che
essi, pure opponendosi al militarismo e al patriottismo a parole, non colsero
la potenza del trapasso, nella condanna dell’economia borghese, dalla sua
considerazione nel campo nazionale alla ricerca delle sue leggi di diffusione
mondiale, all’importanza della formazione del mercato internazionale.
Mentre Marx assurge a
questo ultimo coronamento della descrizione del compito della borghesia
moderna, al di là del quale altra tappa egli non pone che la conquista della
dittatura proletaria negli Stati avanzati del mondo, e fa seguire alla
distruzione degli Stati nazionali che col capitalismo nacquero un sempre più
vasto potere internazionale del proletariato, gli anarchici propongono la
distruzione dello Stato capitalista per sostituirvi (quando non proprio l’illimitata
autonomia di ogni individuo, anche già borghese) quella di piccole unità umane
che sarebbero le comuni dei produttori, autonome anche una rispetto all’altra
dopo il crollo del potere dello Stato centrale.
Questa forma astratta di
società futura fondata dalle comuni locali non si vede in che differisca dalla
società borghese attuale, e quali forme economiche diverse dalle presenti ce ne
diano il quadro. Quelli che hanno procurato di tratteggiarla, come Bakunin e
Kropotkin, non hanno fatto che collegarla a ideologismi filosofici e non ad una
critica delle leggi della produzione storicamente constatabili fino ad oggi.
Quando tale critica hanno preso da Marx, non ne hanno saputo trarre che una
minima parte delle conclusioni: colpiti dal concetto di plusvalore, che è
teorema economico, non vi hanno poggiata che la condanna, morale, dello
sfruttamento e ne hanno scorta la causale nel fatto del «potere» dell’essere
umano sull’essere umano. Restati al di qua e al di sotto della dialettica, non
potevano ad esempio capire che dal trapasso tra l’appropriazione di prodotto
fisico e di lavoro del servo da parte del signore terriero alla produzione di
plusvalore del tempo capitalistico vi è stata una effettiva «liberazione» da
forme più pesanti di servitù e di oppressione, pur persistendo la necessità di
una divisione in classi e di un potere di Stato, a vantaggio della borghesia,
ma anche, in quella fase, a vantaggio di tutta la restante società.
Uno dei principali motivi
di maggiore rendimento degli sforzi di tutti gli uomini, e di maggiore media
remunerazione a parità di sforzo, è stata la formazione del mercato nazionale e
la divisione del lavoro produttivo tra rami di industrie che scambiavano i loro
prodotti intermedi e finali in un campo di libera circolazione, con la tendenza
sempre più energica ad estenderlo anche fuori delle frontiere di ogni Stato.
Cresciuta, in piena
coerenza alla integrale descrizione marxista, la ricchezza della borghesia e la
forza di ogni suo Stato e con ciò la produzione del plusvalore (che non vuol
dire immediatamente aumento del suo prelievo integrale assoluto a danno della
classe inferiore, in quanto si concilia, fra l’altro, con una certa diminuzione
della giornata di lavoro, ed un generale aumento del campo di soddisfazione dei
bisogni), per demolire il potere capitalista non ha alcun senso l’idea di
tornare a spezzare lo Stato nazionale nelle isolette di potere che
caratterizzavano il medioevo preborghese. Ha poi addirittura senso retrogrado
quella di richiudere l’economia delle cerchie di produzione e consumo in quei
limiti angusti, al solo scopo di eliminare in ogni piccola cerchia il prelievo
dei pochi oziosi non lavoratori.
In questo sistema di
comunardi ugualitari è certo che il costo del nutrimento di un giorno in ore di
lavoro di tutti i componenti adulti la comune (lasciamo il piccolo
argomento: chi costringerà a lavorare quelli che non vorranno farlo?),
risulterà certamente più alto che in una nazione, poniamo la Francia moderna,
in cui sia perenne il flusso economico tra comune e comune, e si faccia
pervenire un dato manufatto dalla zona ove lo si produce con difficoltà minore,
malgrado che vi pappino gratis le «cento famiglie».
Alla comune non
resterebbe che trattare su un piano di libero scambio tra l’una e l’altra, e,
pure ammesso che solo una «coscienza universale» regoli pacificamente questi
rapporti tra i nuclei economici di località, nulla impedirebbe che oscillando
le equivalenze tra merce e merce si realizzassero sottrazioni di plusvalore e
di pluslavoro tra una comune e l’altra.
Questo sistema
immaginario di piccole comuni economiche si riduce ad una caricatura filosofica
del self-government, dell’autogoverno dei piccoli borghesi di tutti i
tempi. È facile vedere che esso è un sistema tanto mercantile, quanto quello
della Russia di Stalin e di quella sempre più antiproletaria post-Stalin, e che
esso è un sistema di equivalenti monetari (senza lo Stato che batta moneta?!)
totalmente borghese, e più pesante per il medio produttore di un sistema di
grandi industrie nazionali ed imperiali.
La forma sindacale
Abbiamo svolta la parte
storico-politica della critica alla concezione sindacalista della lotta
proletaria, mostrando l’insufficienza dottrinale e la cattiva prova, nell’esperienza
passata, della formula: sindacato contro Stato borghese; affacciata nell’intento
di fare a meno dell’organo di lotta costituito dal Partito politico, e dell’organo
di direzione sociale rappresentato dallo Stato rivoluzionario di Marx, tanto
indispensabile quanto transitorio storicamente.
Nell’ideologia di Sorel e
seguaci il sindacato bastava, solo, tanto alla funzione di direzione della
lotta, quanto a quella di organizzazione e gestione dell’economia proletaria,
non più capitalista. Nella parte attuale si tratta per noi di mostrare come
questa posizione sia possibile solo in quanto i caratteri della forma di
produzione opposta e successiva al capitalismo borghese sono svaniti e
scoloriti fino ad una figura fuori della storia, che non si realizzerà e non è
realizzabile, e che vive solo nelle illusioni di un pensiero semiborghese,
nutrito di un certo odio contro l’alta borghesia padronale, ma impotente a
cogliere la profondità dell’antitesi tra la società odierna e quella che uscirà
dalla vittoria del proletariato.
Molta confusione ha
arrecato l’opportunismo di tutte le epoche circa il programma della futura
forma sociale, quale fu propugnato dai partiti politici che si richiamavano al
marxismo, e che si svergognarono fino a sostenere che la formulazione di un
tale programma storico finale, che si disse massimo non tanto per
contrapporlo a un programma immediato e «minimo», quanto per deriderne l’esigenza,
fosse totalmente pleonastica. E lunga fu, e sarà, La lotta per provare che i
decisi connotati di tale programma li possediamo fin dalla prima apparizione
della corrente rivoluzionaria marxista. Ma maggiore ancora è l’indeterminatezza
nella visione di questo modo sociale che uscirebbe dalla vittoria dei sindacati
economici sul padronato capitalistico e dalla distruzione e crollo dello Stato
politico della borghesia.
Molto nella storia delle
correnti socialiste si è equivocato sulle forme di semplice cooperazione che si
sono confuse, anche in testi importanti, con la forma economica socialista,
mentre sono figlie dell’utopismo premarxista. Ma il collegamento con una
prospettiva sociale di reti di cooperative di produzione sovverrà meglio più
oltre, quando dovremo occuparci della corrente aziendale, dei Consigli
di fabbrica. In presenza di una visione sindacalista soreliana della società
funzionante dopo la disfatta dei capitalisti, abbiamo anzitutto il dovere di
chiederci se la cellula costitutiva di essa sarà il sindacato di mestiere
locale, di piccole circoscrizioni di territorio, ovvero il sindacato di
mestiere nazionale e, in potenza, internazionale.
Non dobbiamo dimenticare
che nell’ingranaggio delle organizzazioni economiche di resistenza, quale si
delineò alla fine del secolo XIX ed all’inizio del XX (e soprattutto nettamente
nei paesi latini) un ente venne a primeggiare come attività dinamica, e fu la Camera
del Lavoro, che in Francia si chiamò meno bene Bourse du Travail. Se la
prima denominazione puzza di borghese parlamentarismo, la seconda è peggiore
perché risente di un mercato del lavoro, di una vendita dei lavoratori al
migliore offerente tra i padroni, e sembra più lontana dal contenuto di una
lotta sradicatrice del principio stesso del padronato.
Comunque, mentre le
singole leghe e le stesse loro nazionali federazioni, organi meno unitari e
centralizzati, risentono fortemente della limitatezza della categoria
professionale preoccupata di richieste precarie ed anguste, le Camere cittadine
o provinciali del lavoro, sviluppando la solidarietà tra operai di diverso
mestiere e sede di impiego, erano portate a porsi problemi di classe di un
ordine superiore, e nettamente politico; discutevano veri problemi politici,
fuori del trito senso elettorale, ma di azione rivoluzionaria, sebbene il
carattere locale non potesse sottrarle del tutto a quei difetti che abbiamo
esaminati nella critica delle forme «comunaliste» e localiste.
Vigore della forme intersindacali
Potremmo citare episodi
degli anni italiani rossi del primo dopoguerra in cui lo specifico e vivace
organo della Camera del Lavoro, detto Consiglio Generale delle Leghe,
decise movimenti di piazza a largo respiro, perfino senza la formalità di
convocazione da parte dei funzionari sindacali, e dietro vigorosi appelli fatti
a viso aperto a nome dei gruppi di partito socialisti e poi comunisti. In
Francia nei primi anni del secolo era all’ordine del giorno il tremore della
Sûreté per le ondate di movimento che partivano dalle Bourses du Travail.
Queste, senza saperlo, erano organi politici della lotta per il potere, ma le
bonzerie confederali riformiste e anche talvolta anarchiche speculavano sul
loro isolamento locale per impedire i movimenti di portata nazionale (e, nel
caso dello sciopero tentato nel
Durante il settembre
1920, della occupazione delle officine in Italia, i bottegai borghesi
terrorizzati rialzarono le saracinesche lasciando formare depositi di oggetti
di consumo presso le Camere del Lavoro che li distribuivano ai disoccupati:
funzione che trascendeva davvero i problemi sindacali di remunerazione del
lavoro, e che per grande suo merito non fece perdere il sangue freddo al
procuratore supremo dell’ordine costituito Giovanni Giolitti, che non ci
processò come ladri, il che sarebbe stato di tutto rigore giuridico.
Nella successiva fase
fascista le azioni non delle squadre di Mussolini, di cui a suo tempo
registrammo una serie di sanguinose sconfitte, ma quelle delle forze armate
statali, fino alle artiglierie (Empoli, Prato, Sarzana, Parma, Ancona, Foggia,
Bari, in cui sparò perfino la marina militare), riuscirono solo con reiterati
assalti ad aver ragione della difesa armata degli operai che avevano
trasformato in fortezze le sedi delle Camere del Lavoro.
Mancò nello sciopero di
agosto 1922 la coordinazione nazionale di questa difesa, tentata dal solo
giovane partito comunista, per il tradimento delle centrali sindacali e del
partito maggioritario dei massimalisti-riformisti, che riuscirono per la
ennesima volta a frenare il movimento proprio nelle grandissime città, in cui
il movimento fascista non contava nulla, essendosi reso padrone soltanto di
Bologna e Firenze, ma non di Milano, Roma, Genova, Torino, Napoli, Venezia,
Palermo, purtroppo legalmente e pacificamente collegate ai centri
addormentatori. Quella fu la data, e non l’ottobre 1922 con la commedia della
marcia su Roma, della vittoria del capitalismo italiano sulla rivoluzione
proletaria, uccisa dalla labe infame dell’opportunismo – e con ciò lasciamo il
tema italiano.
Nella rete sindacale,
dunque, vediamo soprattutto impotente il sindacato locale e la federazione
professionale nazionale, con la centrale nazionale quasi ovunque controllata
dai partiti opportunisti, mentre la sola sede di un’azione di classe si
ravvisava un tempo nelle sedi intersindacali di città e di provincia.
Nella presente fase dell’ondata
stalinista di opportunismo anche questa ultima risorsa è stata distrutta,
poiché la Camera del Lavoro, come sede di febbrile convegno dei lavoratori più
combattivi, più non esiste (tradizionalmente la sera erano migliaia i
lavoratori presenti, ed era facile la mattina seguente far arrivare una loro
decisione in tutta la zona); e al suo posto i pretacci rosa e rossi hanno
elevato un corridoio con burocratiche file di sportelli ove ogni operaio
isolato e intimidito va a domandare quali sono le sue spettanze, o quali sono
le «disposizioni» giunte dall’alto circa qualche ridicolo moto di quelli
odierni, biascicando poi le consegne avute e singhiozzando gli scioperi
castrati.
La funzione economica
Dobbiamo farci l’ipotesi
di un moto vittorioso contro le forze dell’ordine, e di un’attività economica e
produttiva che abbia preso a svolgersi dopo avere eliminata la direzione
borghese, ipotesi che sarebbe meno lontana dalla possibilità reale nel solo
caso di una città di forti organizzazioni aventi un centro camerale unico, ma
che ci riconduce alle obiezioni che valgono per la forma «comunale» quanto alla
eventualità di vittoria in una città o provincia e non anche in quelle prossime
dello stesso Stato.
Per capire quindi la
frase dei soreliani e simili sulla gestione sindacale dell’economia «futura»
(senza ripetere quanto abbiamo detto circa l’illusione sulla gestione delle
comuni locali) ci resta solo da immaginare un apparato di direzione economica
che, in un dato paese (con le abituali riserve sulle prospettive negative per
la vittoria sul capitalismo in un solo paese, che si sia chiusa in sé
medesima), venga ad essere smistato tra le direzioni nazionali dei sindacati di
categoria. Per fissare le idee, l’organizzazione della produzione del pane ed
altri prodotti granari da parte della «Federazione dell’arte bianca» ed
analogamente per tutti i settori di produzione e di industria.
Conviene cioè immaginare
che tutti i prodotti del dato genere siano messi alla disposizione di grandi
organismi, specie di trust nazionali, dai quali siano stati ormai eliminati i
padroni capitalisti e che devono decidere sulla utilizzazione del tutto, nella
fattispecie pane, paste alimentari ecc., in modo tale da ricevere dagli altri
organismi paralleli tutto quanto loro occorra, tanto al fine del consumo dei
loro componenti quanto del fabbisogno di materie prime, strumenti di lavoro,
ecc. Una simile economia è una economia di scambio, e la possiamo pensare in
due modi: in uno, più elevato (per intenderci brevemente), tale scambio avviene
soltanto al vertice di tutti questi settori di produzione, che nella loro
gerarchia a scale distribuiscono tutto dall’alto al basso, come beni di uso e
beni strumentali. Il sistema di scambio in testa resta un sistema
mercantile, ossia ha bisogno di una legge di equivalenza dei valori degli stock
di merci tra un sindacato e l’altro, il numero dei quali è facile prevedere
elevatissimo mentre è altrettanto facile vedere che ciascuno ha bisogno di
negoziare con quasi tutti gli altri. Non ci domandiamo nemmeno chi
stabilirà il sistema delle equivalenze, e che cosa garantirà l’atmosfera che
caratterizza tutte queste costruzioni prevalentemente fantastiche, l’autonomia
e l’»eguaglianza» tra tutti questi sindacati di «produttori». Mostriamoci «liberali»
al punto di credere possibile che i vari rapporti di equivalenza possano uscire
in modo «pacifico» da equilibri che si formano in modo «spontaneo». Un sistema
di misure tanto complesso non potrà agire senza il già acquisito da millenni
espediente dell’equivalente generale: in una parola il denaro,
misura logica di tutti gli scambi.
Non è meno facile
concludere che si scenderebbe al modo meno elevato: il maneggio del denaro non
avverrà in una società simile solo alla testa e tra trust e trust di produzione
(la parola sindacato è qui del tutto a posto), ma un tale potere sarà
concesso ad ogni associato del trust, ossia ad ogni lavoratore che avrà la
possibilità di «comprare» quello che vuole, dopo aver ricevuto dal suo sindacato
verticale la sua quota di moneta: in una parola un salario, come oggi, con la
sola pretesa che sia «indiminuto» (come in Dühring, Lassalle ed altri) della
tangente del profitto padronale.
L’illusione borghese e
liberale che un sindacato sia autonomo dall’altro nel negoziare le condizioni a
cui cede il suo stock di prodotti (monopolizzati), non si separa mai dall’altra
che ogni produttore remunerato secondo il totale prodotto del suo lavoro
– nonsenso ridicolizzato da Marx – possa farne quello che meglio crede quando
si tratta di decidere sui suoi consumi. È qui che casca l’asino e queste «economie
di produttori» si rivelano lontane dall’economia sociale, che Marx chiama
socialismo e comunismo, quanto e peggio dell’economia capitalistica.
Nell’economia socialista
il soggetto che delibera non solo in fatto di produrre (come e quanto) ma anche
di consumare, non è più l’individuo ma la società,
In essa il proletario
produce come vuole il capitalista (e in modo più generale e scientifico come
vogliono le leggi del modo di produzione capitalistico, come vuole il capitale,
mostro extraumano) e consuma, entro un dato limite, non quanto, ma certo come
vuole lui. Nella società socialista il componente non sarà «autonomo» nella
scelta dei suoi atti di produzione, e nemmeno nella scelta dei suoi atti
di consumo, entrambe le sfere restando dettate dalla società, e per
Polemica che è sempre quella
La nostra discussione ad
ogni passo sembra elevare formule che sorprendono, e per tale motivo ci corre l’obbligo
di dimostrare, in soste continue e pazienti, che sono quelle secolari della
nostra scuola dai taglienti connotati. Dall’opposto ci interessa del pari
provare perché ci stanno sullo stomaco altrettanto degli stalinisti classici, e
degli sbilenchi semi-stalinisti oggi in auge, quegli antistalinisti che oggi si
levano come gli sciami di locuste e che, rifischiando coi primi la correzione,
l’arricchimento del marxismo all’antica, spezzano tutte le lance contro i
violatori delle «autonomie», e a questi stupri mostrano di attribuire le
disfatte incessanti della rivoluzione.
Che cosa sono ora andati
a tirare fuori questi impazienti inventori di nuovissime risorse?
Nientemeno (da un foglio del ben noto e sempre più eclettico quadrifoglio)
che gli scritti di Francesco Saverio Merlino, il «socialista libertario», che
risalgono al decennio 1880-1890. Un precursore della ricetta ultrarancida, che
oggi cucinano con salse così diverse da sfuggire all’enciclopedia Chiron una
schiusa di giornaletti sorti a cantare sotto le finestre di Palmiro le strofe a
dispetto, senza capire che per quella ricetta il povero Palmiro è uno chef
alla scala in cui essi dissidenti sono appena sguatteri. La ricetta è quella:
La salvezza sta nell’innesto tra i valori di socialismo e di libertà!
L’ideologia del salvatore
(da Marx e dalla scienza rivoluzionaria), del vecchio scombinatissimo Merlino,
sarebbe oggi un trionfo nei moti non solo del 1905 e 1917 russo (!) ma
soprattutto del 1956 polacco ed ungherese, a cui si aggiunge perfino la «esperienza»
iugoslava.
Le formule di Merlino
sono tratte tra l’altro da un articolo sul Programma di Erfurt del 1891. Per
gli aggiornatori non c’è male. Esse fanno la nota confusione, dispersa
dalla nostra scuola nel primo dopoguerra, tra il balordo «Stato libero popolare»
della socialdemocrazia germanica e la possente posizione centrale di Marx sulla
dittatura proletaria, senza tener conto che per questo Marx ed Engels
andarono, fin dal 1875, ad un pelo dallo sconfessare i tedeschi, come citeremo
più innanzi. Ecco intanto che dice Merlino: «Il potere di direzione, di
gestione, di amministrazione deve appartenere, nella società socialista, non ad
un mitico Stato Popolare ed Operaio, ma alle stesse associazioni del
lavoratori, tra loro confederate».
«Si vuol rimettere tutto
nelle mani di un potere centrale, o si consente alle associazioni operaie il
diritto di organizzarsi a loro modo, prendendo possesso degli strumenti
di lavoro?». «Non un governo od amministrazione centrale, che formerebbero la
più esorbitante delle autocrazie, ma le associazioni di lavoratori debitamente
e liberamente confederate».
Queste formule ci vanno
benissimo e ne prendiamo utile occasione per stabilire che esse presentano bene
quanto pensano Togliatti, Krusciov, Tito e simili, e il perfetto contrario di
quanto andiamo propugnando noi. I quadrifogliari, barbaristi, ed altre simili associazioni
confederali si accomodino dall’altra parte.
Il grido finale che esce
dal loro cuore è sempre quello: «Centralismo burocratico, o autonomia di
classe?». Se l’antitesi fosse questa, al posto di quella di Marx e di
Lenin: «Centro Dittatoriale del Capitale, o del Proletariato?», noi staremmo, e
schiatti chi vuole, per il centralismo burocratico, che a certe svolte della
storia può essere un male necessario, ben dominabile da un partito salvo dal
mercanteggio di principii (Marx) dalla rilasciatezza organizzativa, dal
funambolismo tattico e dalla peste autonomistica e federalista. Quanto alla «autonomia
di classe» è una coglioneria integrale. La società socialista è quella in cui
sono abolite le classi; ammesso che sotto la dominazione di classe l’autonomia
sia una forma di rivendicazione della classe dominata, in una società senza
classe capitalista l’autonomia non può essere altro che una lotta di parte dei
lavoratori contro altre parti, di federazioni contro federazioni, di sindacati
contro sindacati, di «produttori» contro «produttori». Nel socialismo i
produttori non sono più una parte distinta della società.
Ogni associazione in
possesso «a modo suo» degli strumenti di lavoro del suo settore non ci dà il
socialismo, ma sostituisce alla lotta di classe, il cui sbocco non è l’autonomia
ma la dittatura, l’assurdo bellum omnium contra omnes, la guerra di
tutti contro tutti, una soluzione storica per buona sorte tanto infeconda
quanto assurda.
L’autonomia di classe sarebbe la
posizione di un moto di schiavi che chiedesse: Vogliamo restare tali, ma
decidere da noi quale cibo servire a tavola al padrone, o quale delle nostre
figlie mettergli a letto! Mille volte più rivoluzionaria la posizione
cristiana, che non preludeva a una società senza classi, ma che enunciò nettamente:
nessuna differenza tra schiavo e libero.
Questo concetto sta
parola per parola in Marx, e passiamo a questa parte della dimostrazione.
Parole non più dimenticabili
Tutto l’equivoco delle
scuole di tipo sindacalista od operaista, che noi vorremmo designare tutte col
nome di «immediatiste», in quanto confondendo i tempi (dialetticamente
distinti) di organizzazione attuale, corsa storica, e teoria rivoluzionaria,
vogliono chiudere tutto il ciclo proletario alla inscrizione in registro degli
operai di una fabbrica, di un mestiere o di altra piccola isola, e tutto cucire
su questo freddo modello senza vita, sta in questa sostituzione. Il
determinismo marxista distrugge la finzione borghese dell’individuo, della
persona, del cittadino, svelando che gli attributi filosofici di questo mito
altro non sono che la universalizzazione, l’eternamento dei rapporti di cui
beneficia il membro della moderna classe dominante, il borghese, il
capitalista, il possessore di terra e di denaro, il mercatore. Rovesciato questo
idolo lurido, al suo posto mette la società economica «e
provvisoriamente una società nazionale».
Tutti gli immediatisti,
ossia gente che delle vette comuniste ha salito solo un millesimo della
differenza di quota, fanno questo scambio: al posto della società
mettono un semplice aggruppamento di lavoratori. Scelgono questo aggruppamento
stando ai limiti di una delle galere di cui si compone la borghese società di uomini
liberi: la fabbrica, il mestiere, la aiuola territoriale e giurisdizionale.
Tutto il loro sforzo consiste miseramente nel dire a non-liberi, non-cittadini,
non-individui (questa la grandezza che, inconscia, detta loro la
rivoluzione capitalista): invidiate ed imitate i vostri oppressori, divenite
autonomi, liberi, cittadini, persone. In una parola: li imborghesiscono.
Per noi è (al posto di
gruppo immediato dello schieramento sociale odierno che si attribuisca le
funzioni che ha oggi il capitalismo) società non capitalista: qui l’abisso
fra noi e questi battaglieri toporanocchiati. Davanti ai risultati di questo
procurato aborto si blatera, che si è creata una nuova autocrazia, un centro
burocratico, un vertice di oppressione, e che per evitare questo si debba
spezzare quell’unità potente: società, non persona, in tanti frammenti «autonomi»,
liberi di scimmiottare i modelli borghesi ignobili, e tra l’altro ormai
trogloditici.
Ditelo: ma fate almeno
come Merlino. Passate Carlo Marx tra gli autocrati, gli oppressori, i
traviatori del proletariato. E Lenin, si intende, sebbene Merlino non lo abbia
conosciuto, dalla stessa parte.
Antonio Labriola dette
ragione a Merlino quando insorse contro l’idea di Lassalle (un immediatista
principe) di: «preparare le vie alla soluzione della questione sociale
stabilendo società di produzione con l’aiuto dello Stato sotto il controllo
democratico del popolo dei lavoratori». Questo passo stercorario passò infatti
nel programma di Gotha (1875), ma non figura in quello di Erfurt del 1891 che
provocò duri interventi di Engels.
Ma chi, se non Marx, e
con lui Engels, in testi che furono tenuti nascosti 15 anni, nel ridurre a
brandelli quella ignobile formulazione, dette nella Critica del Programma di
Gotha la più classica dialettica costruzione della società futura in linee da
cui, con l’immediatismo (oggi ultradilagante) della mammella statale tra le
labbra della classe operaia, resta stritolato ogni particolarismo e
federalismo, ogni concetto deforme di «campi autonomi di organizzazione
economica»? I testi, su cui da maestro lavorò un Lenin, lo provino ancora.
Oggi che affoghiamo tra
le bestiali «questioni di struttura», e «problemi da portare a soluzione» e «vie
da preparare», respiriamo una boccata di ossigeno da questi fogli ingialliti
nel cassetto di Bebel: «In luogo dell’esistente lotta di classe subentra una
frase da gazzettiere: la «questione sociale» di cui si è avviata la «soluzione».
Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della Società, «l’organizzazione
socialista del lavoro complessivo» [Marx ha già polverizzata l’altra frase idiota,
ancora in circolazione, di «emancipazione del lavoro», laddove egli dice sempre
della classe lavoratrice] sorge dall’assistenza dello Stato!».
Egli deride poi la
formula del controllo democratico del popolo lavoratore: «Un popolo lavoratore,
il quale, ponendo queste rivendicazioni allo Stato, dimostra di aver piena
coscienza di non essere né al potere, né maturo per il potere!».
Ma la frase che mostra
qual è per noi marxisti genuini la forma della società di domani, è in questo
testo la seguente: «Il fatto che gli operai vogliano instaurare le
condizioni della produzione collettiva alla scala della società e,
per cominciare, a casa loro, su scala nazionale, significa soltanto che
lavorano al rivoluzionamento delle attuali condizioni di produzione; e non
ha nulla a che vedere con la fondazione di società cooperative assistite dallo
Stato».
Alla scala della società
Questo passo, simile a
tanti altri, basta a stabilire che chi scende dalla «scala della società» che
per un momento storico è indicata come «scala nazionale» prima della
conquista del potere, a scale federalsindacali (comunali, aziendali e ancora
peggio) cade nell’immediatismo, tradisce il marxismo, manca di ogni concezione
della società comunista – il che vuol dire: è fuori della lotta rivoluzionaria.
Quanto all’altra
ciclopica antitesi tra «trasformazione rivoluzionaria della società» e «organizzazione
socialista del lavoro», essa può pari pari essere girata ai costruttori di
socialismo di Mosca per ribattere sul loro muso che il trapasso al
socialismo non si appalta ad un’impresa di costruzione, parola che Marx,
che qui si vede come le pesa (e si vede in Lenin come le ripesa
lui) non si è mai sognato di adoperare; parola crassamente borghese,
volgarmente volontarista.
Qui non riporteremo la
nota scarnificatrice critica allo Stato popolare libero che nella sua
incomparabile potenza è stata da Lenin riecheggiata davanti a milioni di
uomini, non più dal chiuso di un mobile ma dai cieli fiammeggianti di una
rivoluzione, della più grande; e quanto è più miserabile chi anche questa volta
ha dimenticato! Più lo Stato è libero, più esso stritola il proletariato in
difesa del capitale: non lo vogliamo liberare, ma incatenare, per poi
sgozzarlo. E con ciò l’antistatalismo dei Bakunin e dei Merlino è tornato
al suo posto tra le parodie carnascialesche. Al suo posto – altezza della
dialettica! – sarà posto il nuovo Stato (Engels), che non ci serve per la
libertà ma per la repressione, ma che dovrà sorgere per poter poi morire
per sempre, con l’abolizione delle classi.
Lo Stato popolare
libero può andare a porsi a braccetto con l’autonomia di classe! Non
sono che forme della impotenza immediatista, della immanenza del
pensare da borghesi.
Tornando al concetto
fondamentale di «società» unitaria al posto delle antitesi tra capitalisti e
proletari – tra produttori e consumatori anche – vale la pena di seguirlo nei
vari programmi, pur così vivamente criticati, del partito tedesco. Quello dei
lassalliani (Lipsia, 1863) contiene la formula che Marx dovrà staffilare:
eliminazione degli antagonismi di classe, laddove, Marx dirà, sono le classi
che dovranno essere eliminate, e il mezzo sarà il loro antagonismo.
Il programma dei «marxisti»
(Eisenach 1869), che Marx giudicò non redatto tenendo conto delle conquiste teoriche,
chiede la fine del dominio di classe e del salariato, ma parla ancora di «prodotto
integrale del lavoro» dato ad ogni lavoratore, e di organizzazione del lavoro
su base cooperativa (non però con aiuto statale).
Il programma di Gotha,
1875, fusione deprecata tra eisenachiani e lassalliani, rimasto come Marx lo
aveva condannato, dice tuttavia che gli strumenti di lavoro saranno «patrimonio
comune di tutta la società». Marx avrebbe lasciata la frase, ma voleva che non
si dicesse elevati a, bensì trasformati in patrimonio comune. Vi
leggiamo una rettifica antiattivista.
Il programma di Erfurt,
per cui furono accettati in gran parte i suggerimenti di Engels, dopo la
pubblicazione delle critiche a quello di Gotha, si esprime su tal punto
chiaramente: «Trasformazione della proprietà capitalista in proprietà sociale,
e trasformazione della produzione di merci in produzione socialista, in
produzione effettuata dalla società e per la società».
La conclusione è che in
dottrina l’immaginaria «società gestita dai sindacati operai di produzione»,
mentre non è una previsione storica della scienza proletaria – e, a meno di una
totale bancarotta di questa con Marx, Engels, Lenin e noi tutti quanti rematori
della barca, non si vedrà mai – non ha nulla di comune con la forma socialista
e comunista, nemmeno come fase di passaggio.
La produzione e la
distribuzione in tale schema ideologistico non sono portate alla scala della
società, e nemmeno alla scala «nazionale», in quanto strumenti di lavoro e
prodotti del lavoro sono messi a disposizione dei sindacati «liberamente
confederati» o «federalmente liberi» di fare il comodo loro. Tali settori, se
riuscissero a chiudersi in campi «autonomi», lotterebbero tra loro con la
concorrenza prima e in forme fisiche dopo, soprattutto se «assente» ogni tipo
di Stato.
Nel detto schema fittizio
non solo la produzione non è effettuata dalla società e per la
società, ma dai sindacati e per i sindacati, quanto resta una produzione di merci,
dunque non socialista, dato che ogni bene di consumo passa come merce da
un sindacato all’altro; e non potendo ciò avvenire senza un’equivalente moneta,
in ultima analisi passa come tale ad ogni produttore singolo. Sopravvive il
sistema del salario, come ogni qual volta si accampa l’utopia del frutto
indiminuito del lavoro, e sopravvivrebbero le possibilità della accumulazione
del capitale, nelle mani del sindacato autonomo e in seguito in quelle dei
singoli. Quanto in questa critica appare dedotto per assurdo, si deve
unicamente al contenuto piccolo-borghese di tutte queste utopie.
Si chiuda questa parte
dottrinale con altro passo della «Critica del programma di Gotha» atto a
colpire insieme immediatisti da un lato, e capitalisti di Stato dall’altro,
ricordando ad entrambi che il nostro indispensabile Stato dittatoriale
proletario non ha il compito di liberare ma di reprimere il
capitale, nei suoi difensori tanto borghesi quanto piccolo-borghesi, o anche
operai schiavi della tradizione borghese o sottoborghese. È una frase che Marx
scrisse per deridere la proposta «minimalista» dell’imposta progressiva sul
reddito, ora vigente in Russia. Una di quelle che mozzano il fiato in gola: e a
voi, messeri!
«Una imposta sul reddito
presuppone le diverse fonti di reddito delle diverse classi sociali, quindi
la società capitalistica».
L’esperienza russa e di lenin
Tra i Congressi
internazionali comunisti del 1920 e del 1921, nel partito comunista russo
(esattamente al X Congresso del 3-16 marzo 1921) si svolse un dibattito con
Fu uno dei mille falsi
del «Breve corso» stalinista accomunare con questi «operaisti» anche Trotzky,
perché egli sostenne una polemica a riguardo del compito del sindacato. Nello
stadio di cui si tratta, Trotzky era del tutto a fianco di Lenin e la sua
proposta era quella marxista di assoluta subordinazione dei sindacati di
categoria al partito ed allo Stato politico proletario, che nel 1921 non era
per lui né per noi «degenerato».
La proposta dell’opposizone
operaia consiste proprio nella concezione immediatista dell’economia
socialista, e nella tesi ingenua quanto falsa: il socialismo si può istituire
in qualunque condizione e momento, se si lasciano gli operai fare da soli,
gestire da soli il fatto economico. Così Lenin la riporta: «Il compito di
organizzare la produzione dell’economia nazionale spetta al Congresso dei
Produttori di tutta la Russia, riuniti in sindacati di produzione, i
quali eleggono un organo centrale che dirige tutta l’economia nazionale della
Repubblica».
Lasciate fare un altro
poco Nikita Krusciov coi suoi Sovnarcos e vedrete che farà sua questa
vecchia proposta, col peggioramento che non si tratterà di sindacati nazionali,
ma solo regionali, di produzione. Tutta questa gente, invece di considerare la
conquista del controllo nazionale come un semplice trampolino verso quelle
internazionali, giusta i cardini della dottrina marxista, cala appena può a
quadri locali e regionali e prosegue la sua marcia imbecille verso le
autonomie, che non avrà mai altro sbocco che le autonome iniziative ed
intraprese di natura capitalista.
Non ci interessa qui
rifare tutto il processo russo a proposito di gestione economica, che abbiamo
svolto in lunghi studi noti ai lettori, e notiamo solo che ci troviamo al
Congresso in cui Lenin svolse il classico «Discorso sulla imposta in natura»,
dimostrando che era all’ordine del giorno non il trapasso al socialismo, ma
quello al capitalismo di Stato e, persino, per chi sa trattare tali punti da
marxista, dalla produzione molecolare al capitalismo privato. Posizione di
gigantesca potenza, che mette tutto a posto, mentre il successivo infame
opportunismo tutto turpemente tornò a dislocare.
Ci preme solo dimostrare
come l’argomentare di Lenin contro la proposta dell’economia gestita dai
produttori è lo stessissimo di Marx e di Engels, che oggi a noi sovviene contro
recentissime deformazioni sindacaliste e anarchiche, affioranti perfino tra
gruppi che non hanno creduto a Stalin, Togliatti o Thorez, e oggi sembrerebbero
non credere a Krusciov (ma a quel bel garofalo di Tito, che poi ne sarebbe il
precursore, sì!).
I sindacati di
produzione tra gli artigli di Lenin fanno la stessa fine delle cooperative
di Lassalle tra quelli di Marx.
Ripetiamo una parte dei
passi che nella detta occasione già citammo (vedi «Programma Comunista» n. 21
del 1956, e in specie gli articoli 69, 70, 71 della Struttura russa): «Idee
completamente false dal punto di vista teorico... rottura completa con il marxismo
e il comunismo... contraddizione con l’esperienza pratica delle rivoluzioni
semiproletarie (meditare!) e della presente rivoluzione proletaria». «In primo
luogo nel concetto di produttori sono compresi il proletario, il
semiproletario e il piccolo produttore di merci: in questo modo ci si sposta
radicalmente dal concetto fondamentale della lotta di classe e dall’esigenza
fondamentale di distinguere nettamente le classi». Meditare sei volte, e
pensare alle bestemmie di Stalin, a quelle del XX Congresso, anche a quelle
degli entusiasti dei moti polacchi e ungheresi ultimi. «Il contare sulle masse
senza partito o il civettare con esse [quadrifoglisti, barbaristi, bramosi di
demagogia che non avete nemmeno chi demagogare, in gamba!] costituisce
una deviazione non meno radicale dal marxismo».
Parla quel Lenin a cui,
facendo gioco agli stalinisti peggiori, avete fatto scoprire la risorsa
infallibile di «tuffarsi nelle masse»! «Il marxismo insegna [e qui Lenin cita
le conferme dei congressi mondiali] che soltanto il partito politico della
classe operaia, vale a dire il partito comunista, è in grado di
raggruppare, di educare, di organizzare l’avanguardia del proletariato e di
tutte le masse lavoratrici, unica capace di resistere alle inevitabili
oscillazioni piccolo-borghesi di queste masse, alle inevitabili tradizioni e
rigurgiti della grettezza di categoria e dei pregiudizi professionali che si
riscontrano tra il proletariato».
In questo passo che mette
in evidenza l’inferiorità di tutte le organizzazioni immediate rispetto
al partito politico, e il grave rischio che quelle corrono nei contatti storici
inevitabili con le classi semiproletarie e piccolo-borghesi, Lenin ancora una
volta conchiude che: «Senza la direzione politica del partito, la dittatura
del proletariato è irrealizzabile».
In questo medesimo testo
Lenin smentisce che il programma 1919 del partito russo abbia attribuito
funzioni di gestione economica ai sindacati. lnvero talune frasi del programma
parlavano di gestione di tutta l’economia nazionale, ma «come un unico
complesso economico», e di «legame indissolubile tra l’amministrazione statale
centrale, l’economia nazionale e le masse lavoratrici» come un traguardo da
raggiungere, alla condizione che i sindacati «si liberino sempre più della grettezza
corporativa, reclutando la maggioranza e a poco a poco la totalità dei
lavoratori».
Sindacati e capitalismo di stato
La questione dei
sindacati e della gestione economica centrale statale ritornerà in primo piano
in Russia, anzi in tutto il mondo, perché costituisce un comodo ripiego moderno
per il capitalismo di tutti i Paesi, America in testa da tempo.
Il criterio «leninista»
in questa questione è che i sindacati seguono in ritardo e a stento gli
stadi già raggiunti dal partito politico rivoluzionario, e se da questo
lasciati a se stessi ripiegano verso debolezze piccolo-borghesi e la
collaborazione con l’economia borghese.
In uno stadio sociale
come quello della Russia 1919 e
La questione riesce
chiara se si tiene presente che in tutto questo stadio siamo in presenza di una
statizzazione dell’industria, ma non di una industria e di una economia
socialista. Lo Stato gestisce l’industria tolta senza indennità al privati e ai
trust, in un sistema economico aziendale e mercantile. Anche se lo Stato che
sta a tanto operando è, come base di classe e come politica mondiale,
socialista, il sistema della società industriale si chiama sempre capitalismo
di Stato, e non socialismo. Non occorre per dichiarare capitalista la forma
economica che sia avvenuto quanto avvenne nei decenni seguenti: lo Stato perde
il contenuto politico socialista e il contenuto di classe proletario, in quanto
non si dedica nel mondo a suscitare la rivoluzione negli Stati borghesi;
contrae con questi alleanze di guerra; contrae nel seno degli Stati borghesi
alleanze anche di potere con partiti borghesi e democratici: antepone nell’interno
della Russia gli interessi di classi piccolo-borghesi e contadine a quelli dei
proletari effettivi della città e della campagna.
Ci possiamo così
domandare quale sia il posto del sindacato nella fase del capitalismo di Stato.
Se lo Stato è retto da un partito che non conduce, anzi che avversa, la
politica della rivoluzione proletaria mondiale, il sistema aziendale,
mercantile, monetario e salariale di trattamento della forza di lavoro
giustifica la esistenza dei sindacati come organi di difesa delle condizioni di
lavoro, il cui contraddittore non è altro che lo Stato-padrone, lo Stato-datore
di lavoro. Anche in tale situazione la formula utile non è la ripartizione tra
i sindacati della gestione amministrativa centrale, ma la direzione dei
sindacati da parte di un partito politico proletario capace di risollevare la
questione della conquista del potere centrale. Ove questo partito non esista, o
ne esista come in Russia la carcassa ridotta ad uno strumento dello Stato
capitalista, si è ricaduti in uno schiavismo salariato da cui storicamente non
si uscirà mai per sforzi di gruppi autonomi operai tendenti ad afferrare il
controllo di campi staccati della produzione, e con la insulsa formula di
ricominciare a fare una rivoluzione liberale; tanto è vero che in Russia
la sta facendo, questa vuota manovra, proprio lo Stato di Krusciov. Se quei campi
si staccheranno e se un tale sfaldamento avverrà, essi cadranno in mano a forze
di capitale privato e comunque a lunghe mani artigliate del capitale
internazionale.
All’opposto in quella
fase decisamente progressiva di capitalismo di Stato in cui il potere politico
centrale opera storicamente a dilatare la rivoluzione internazionale, i
sindacati, se non vogliono divenire organi disfattisti e da reprimere, devono
apprendere dal partito di classe, dall’autentico partito dei lavoratori
salariati di industria del mondo intero, ad ottenere dalla valorosa e generosa
classe degli operai di fabbrica, che già nella storia ne ha date prove di
altezza luminosa, che offra lavoro, sopralavoro e plusvalore per la
rivoluzione, per la guerra civile, per le armate rosse in tutti i Paesi, per le
munizioni al conflitto sociale di classe oltre tutte le frontiere. Anche in un
tale caso storico la loro rivendicazione di tutto il frutto del lavoro al
salariato sarebbe, oltre che antieconomica e antisociale, disfattista del
compito terribile che la storia segnò alla classe salariata pura e ad essa
sola: provocare la generazione sanguinosa della società nuova.
Compito che, scavalcando
secoli e secoli di tormentata storia, è l’opposto delle ubbìe della scuola dei
ragionieri e dei rigattieri operaisti, della scuola degli «immediatisti» in cui
ogni generazione vuole toccare con la mano breve il gettito dell’affare che ha
fatto, autonomamente confederandosi.
La forma aziendale
I difetti della forma del
«Consiglio di fabbrica» emergono tutti, aggravati di molto, dalla disamina che
abbiamo fatta di una gestione sindacale della società successiva al
capitalismo, come è concepita da questo settore degli «immediatisti».
La corrente della
Sinistra italiana lo avvertì quando si ebbero le prime manifestazioni della
fede in questo rinnovato mito, al tempo dei congressi a Torino dei Commissari
di reparto della Fiat, della grande Fiat; e della rivista di Gramsci «l’Ordine
Nuovo», che ammonimmo e salutammo al tempo stesso in quanto scendeva a
schierarsi animosamente contro l’opportunismo menscevico dei sindacati italiani
tradizionali e contro la inconsistenza del Partito Socialista che si vantava,
in quel 1919, filo-bolscevico.
Gramsci, all’inizio della
sua evoluzione ideologica, mai dissimulata data la chiarezza propria dell’uomo,
da filosofo idealista e da interventista di guerra verso il marxismo
antidifesista restaurato da Lenin, dette al suo giornale un titolo leale. Non
parlò della Classe nuova nel dominio politico, né dello Stato nuovo di classe,
e solo a rilento accettò le direttive marxiste sulla dittatura del partito e
sulla stessa incidenza del sistema marxista, fuori dell’economia di fabbrica,
in una visione radicale di tutti i rapporti di fatti nel mondo umano e
naturale: lo ammise apertamente al Congresso di Lione del 1926: «Preferiremo
sempre quelli che imparano capitoli del marxismo a quelli che li dimenticano».
Al 1919 Antonio Gramsci era appena fuori di una valutazione della Rivoluzione
di Ottobre che vedeva in essa il rovescio del determinismo, e il miracolo della
volontà umana che violava avverse condizioni economiche: quando egli vide
Lenin, questo miracolatore, difendere il più stretto determinismo
marxista, la cosa non restò senza effetto; maestro ed allievo non erano da
dozzina.
Comunque il sistema dei
Consigli, costruzione ideale quasi letteraria, e meglio diremo artistica, di
cui l’agile suo spirito si era innamorato, fece bene a chiamarlo Ordine Nuovo,
perché in esso il proletariato di fabbrica si erigeva, sulla sua base
immediata, in un nuovo Ordine, come quelli di prima della Rivoluzione liberale,
come i tre Stati della società francese del Settecento. E tutti gli «immediatisti»
che abbiamo passati in rassegna hanno tradotta la rivendicazione della Classe
dittante che sopprime le classi, e non aspira nemmeno ad essere l’Unica
Classe, in una pedestre richiesta di essere elevata a Quarto Stato. L’immediatista
ha sempre bisogno di disegnare il nuovo su una passiva fotografia del vecchio.
Il suo immediatismo Antonio lo chiamò concretismo, e prese la parola da
attitudini di intellettuali borghesi nemici della rivoluzione: non avvertì, o
poco noi potemmo avvertirlo, che ogni concretismo è controrivoluzione.
Ma l’umanità, se non
avesse avuta altra risorsa che quelle immediatiste, non avrebbe saputo che la
terra è sferica, è mobile, che l’aria pesa, che pesano i corpi celesti, che vi
sono gli atomi di Epicuro, le particelle infratomiche dei moderni, la
relatività di Galileo e quella di Einstein... E non avrebbe previsto nessuna
rivoluzione del passato o del futuro.
Antonio non sapeva, non
perché non avesse letto (aveva la disgrazia di essere di quelli che leggono
tutto), che gli Ordini li avevamo lasciati dietro fin dal 1847 nella «Misère»
antiproudhoniana di Carlo Marx. «Diremo che dopo la caduta della antica
società vi sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo
potere politico? No». (Questo solo monosillabo, schiere di contraddittori,
bastava leggere).
E perché no? Perché «la
condizione dell’emancipazione della classe lavoratrice è l’abolizione di ogni
classe, allo stesso modo che la condizione dell’emancipazione del Terzo
Stato, dell’Ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli Stati, di tutti gli
Ordini».
Sono passate molte
generazioni, e tre Internazionali sono nate e morte. Abbiamo visto partire in
ascensione a dozzine di dozzine quelli che volevano salire più in alto di Marx,
e poi di Lenin. Pochi, pochissimi sono giunti all’altezza appena del borghese
incorruttibile, di Massimiliano Robespierre. Che riposa, da centosessant’anni,
sulla pietra sepolcrale di tutti gli Ordini Nuovi.
Marxismo ed economia dei consigli
Ci basterà trovare nei
testi l’inconciliabilità dell’antitesi, che ci interessa non per la storia
delle polemiche di Gramsci, ma perché oggi gruppi di smarriti antistalinisti e
di squallidi epigoni si vorrebbero riattaccare a quelle consegne.
L’azienda locale autonoma
è la più piccola delle pensabili isole sociali, avendo allo stesso tempo la
limitatezza della categoria professionale e della circoscrizione locale. Abbia
essa ancora una volta eliminati dentro di sé il privilegio e lo sfruttamento,
distribuendo l’inafferrabile totale valore del lavoro, ai suoi confini
angusti è presente la piovra del mercato e dello scambio, e nella forma
peggiore la peste dell’anarchia economica capitalista, in cui tutto piomba. Chi
regolerà le funzioni non strettamente di tecnica produttiva in questo sistema
dei Consigli, in cui è assente il partito e lo Stato, prima che l’eliminazione
delle classi sia un fatto; e, per dirne una sola, chi provvederà ai non
arruolati in azienda, ai senza-lavoro? Molto più che in un sistema alveolare di
comuni o di sindacati sarà possibile che l’accumulazione riparta – se mai fosse
stata fermata – come accumulazione di denaro ed anche gli stock formidabili di
materie da lavorazione e di prodotti già lavorati. In questo sistema ipotetico,
vi sono al massimo grado le condizioni per trasformare un occhiuto lento
risparmio in capitale dominatore.
La bestia è l’azienda,
non il fatto che abbia un padrone. Come scriverete le equazioni economiche tra
azienda e azienda, specie quando vi saranno le grandi a soffocare le piccole,
quelle dagli strumenti produttivi «convenzionali» e quelle ad energia nucleare?
Questo sistema, partito come gli altri da un feticismo dell’uguaglianza e della
giustizia fra individui, e da un buffo orrore del privilegio, dello
sfruttamento e della oppressione, ne sarebbe un vivaio peggiore, se dar si
potesse, della corrente società civile.
Non volete credere che le
parolone privilegio e sfruttamento stanno fuori del nostro marxistico
dizionario? Riprendiamo
Bisogna dire così,
scrivono Marx ed Engels (senza, è chiaro, aver preso accordi): «Con l’abolizione
delle differenze di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e
politiche che ne derivano».
Questo scientifico modo
di parlare basta – a parte la lunga nota critica sulla eguale ripartizione,
che la riduce alla insinuazione degli economisti borghesi: i socialisti non
sopprimono la miseria, ma solo la generalizzano a tutti gli uomini – a fare
giustizia di intere serie di riviste che si scrivono circa il contenuto del
socialismo come filosofia dello sfruttamento, negli anni di grazia,
ahimè, 1956-57.
In questo paragrafo Marx
tratta anche la questione della visione limitata di Lassalle – che
significativamente riconduce a Malthus, oggi rimesso di moda dalle scuole
americane antimarxiste del «benessere» – per cui il socialismo si leverebbe in
lotta solo in quanto il salario operaio è bloccato ad un limite troppo basso;
laddove si tratta di abolire il salariato in quanto «è un sistema di schiavitù,
e di una schiavitù che diventa più dura via via che si sviluppano le forze
sociali produttive del lavoro, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se
è pagato peggio».
Qui Marx svolge il
paragone con lo schiavismo, che noi abbiamo più sopra tentato a proposito della
rivendicazione scema per l’autonomia dei salariati: «È come se, tra gli
schiavi venuti finalmente a capo del mistero della schiavitù e insorti, uno
schiavo prigioniero di concetti antiquati scrivesse nel programma della
insurrezione [uno schiavo, diciamo noi, amarxista, e solo immediatista,
ordinovista]: la schiavitù dev’essere abolita perché il sostentamento degli
schiavi, nel sistema schiavistico, non può superare un certo massimo poco
elevato».
Signori del benessere:
anche dato che il capitalismo possa aumentare senza limiti il benessere
medio, noi gli confermiamo la nostra previsione storica: la morte!
Ma lo standard della
grande FIAT sembrò a Gramsci un nobile ordine, al confronto del vivere
derelitto dell’abbrutito pecoraio sardo, più vile del Quarto Stato.
Nel piano quinquennale
che regalammo, su modelli sovietici, alla Grande FIAT, prevedemmo per il «fatturato»
del 1956 la progressione del 15,7 per cento sul 1955, che dette 310 miliardi; e
avremmo dovuto avere 358 miliardi. Benché ne siano stati annunziati solo 340,
il capitale nominale è stato elevato da
Il nuovo ordine di
Torino e di Mosca comincia già a sciorinare curve meno brillanti?
* * *
In tutto il nostro
confronto tra la «visione» che della società futura hanno gli immediatisti (i
diffidenti verso
Tutta la superiorità
della forma economica in cui produzione e ripartizione sono fatte non da «campi
autonomi» aderenti agli attuali capitalisti «campi di concentramento», quali i
mestieri, le aziende, le giurisdizioni fino a quelle nazionali, di cui faremo
un giorno saltare tutti i reticolati, ma dalla società e per la
società, alla scala della società, è già evidente rispetto al meno
avanzato degli stadi teorizzati da Marx.
Nello stadio inferiore
non sono ancora tutte soppresse le differenze di classe, non si può parlare di
abolire lo Stato, vivono le patologiche tradizioni delle civiltà degli Ordini,
fino a quella del Terzo ed ultimo, sono ancora staccate città e campagna, non è
abolita la divisione sociale delle funzioni, la separazione tra mano ed
intelletto, scienza e lavoro.
Ma nel campo economico
già i settori chiusi sono stati messi nel crogiuolo unitario della fusione
sociale, la partita delle piccole comuni, delle federazioni sindacali e dell’ordine
delle aziende, cui non si accorda nemmeno esistenza di transizione, è già
perduta.
Anche dal momento in cui
abbiamo a che fare con «una società comunista quale è appena uscita dal seno di
una società capitalista» avviene che non vi è più posto per un mercato a cui
accedano i «campi» isolati cinti da filo spinato.
«All’interno della società
collettivistica, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i
produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato
in prodotti vi appare come valore di questi prodotti [sottolineato da
Marx], come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in
contrapposto alla società capitalistica, non è più per via traversa
[come sarebbe nell’ordine delle comuni, dei sindacati e dei consigli] ma direttamente
che i lavori individuali materializzati in prodotti esistono come parti
integranti del lavoro complessivo».
Nella parte finale dello
studio sulla struttura russa abbiamo bene svolto come già il primo stadio,
quello inferiore, sia fuori dalla funzione mercantile. Nulla l’individuo
può procurare e vincolare alla sua persona, o famiglia, mediante danaro, ma
solo il consumo di un breve tempo che gli spetta entro un limite ancora
ristretto e calcolato socialmente, cui gli dà diritto uno scontrino
precario, inaccumulabile. La nostra concezione della dittatura (prima, e poi
della razionalità sociale e di specie) sui consumi comporta questo: che sullo
scontrino non saranno scritte tante lire di cui si possano fare, per esempio,
tutto alcool e tabacco e nulla latte e pane, ma dei generi come sulle
famigerate «tessere».
Solamente sopravvivrà un
diritto borghese, perché queste misure di consumo saranno legate alla misura
del lavoro prestato alla società, fatte tutte le ben note deduzioni di generale
interesse, e il calcolo dipenderà dalle disponibilità oltre che dalle utilità, e
bisogni.
Non vi sarà più legame
mercantile e legge del valore per il confronto tra due prodotti, che sono
entrambi nella massa sociale, come vi sarebbe se venissero da «autonomi»
comuni, sindacati o aziende, coi loro conti di partita doppia sopravviventi. Vi
sarà solo un ultimo legame tra la quantità di lavoro ed il consumo individuale
quotidiano.
Ci dà occasione di
chiarire questo concetto un farfallone acchiappato a volo. Vi è chi sostiene –
un fior di immediatista, come non vederlo? – questa roba: «In economia
socialista il mercato resta, ma si può vedere che sarà limitato ai prodotti. Il
lavoro non sarà più merce».
Questa gente serve ogni
tanto per dire bene le cose giuste rovesciando il detto loro. La verità è
questa: «Nell’economia socialista non vi sarà più mercato» e meglio ancora: «L’economia
è socialista quando non vi è più mercato». In un primo stadio «una sola
quantità economica sarà misurata come merce: il lavoro umano». Nello stadio
superiore, il lavoro umano non sarà che un modo di vivere dell’uomo, e la sola
sua gioia, dice Marx. Dice meglio di noi: il lavoro sarà il primo bisogno
della vita.
Per liberare il lavoro
dell’uomo dalla qualità di merce, bisogna distruggere tutto il sistema del
mercato! Non era questa la prima parola di Marx a Proudhon?
Hanno voluto menare per
buona a quel farfallone un’altra tesi peregrina, molto diffusa: ed ecco un’altra
posizione che in un non lontano studio andremo a smantellare. Bisogna che
aumentino di molto ancora le forze produttive per poter abolire il mercato. E
non è vero: per il marxismo sono già troppe; Marx pone l’aumento delle forze
produttive come base dello stadio superiore, ossia del consumo senza limiti
sociali da insufficiente produzione, ma non come condizione per la fine del
mercantilismo generale, dell’anarchia capitalistica.
Lo stesso programma del
1891, con parole certo del grande Engels, dice: «Già le forze produttive sono
divenute troppo grandi, perché la forma della proprietà privata sia
conciliabile col loro saggio impiego».
Non è che tempo di
prostrare le mostruose forze produttive capitalistiche sotto la dittatura della
produzione e del consumo. E non è che questione di forza rivoluzionaria per la
classe che, anche se il benessere cresce (e Marx – lo provammo testé – non ha
mai previsto il contrario), sta sotto il peso continuo della incertezza dell’esistenza,
che d’altra parte sovrasta la società intera, e tra qualche decennio prenderà
la figura di alternativa tra crisi mondiale e guerra – o rivoluzione comunista
internazionale.
La questione di forza è,
nel suo primo aspetto, questione di ricostruzione della teoria rivoluzionaria.
Poi, del Partito Comunista senza frontiere.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org